3 feb 2020 – Il ciclocross Italiano negli ultimo anni ha fatto miracoli. Lo dimostrano i numeri: i partenti a qualsiasi gara nazionale o regionale è talmente salito che si parla del doppi o del triplo di partecipazione rispetto a 10-15 anni fa.
I traini sono stati tanti: dai problemi della strada che spingono molti a rifugiarsi nell’offroad ai personaggi forti come Van Der Poel. Poi la creazione di gare importanti in Italia come il Giro d’Italia ciclocross o il Master Cross. La cura dei percorsi, che sono radicalmente migliorati negli ultimi anni un po’ dappertutto in Italia.
I numeri – a livello di partecipazione – dicono che si sta lavorando bene. I numeri – a livello risultati – non sono quelli che vorremmo. Anche dopo questo Campionato del Mondo torniamo a casa più o meno allo stesso modo: una Eva Lechner che da sola sorregge l’Italia intera da 2 decenni pieni – quando arriverà qualcuna a sostituirla? Forse ci siamo, vediamo giovani arrembanti sia fra gli uomini che tra le donne, ma la storia del cross italiano è piena di promesse che a volte si sono concretizzate a metà o che non si sono concretizzate affatto. Chi ha seguito le gare sa che negli ultimi vent’anni spesso ci siamo aggrappati al giovane emergente di turno che poi però non abbiamo mai visto davanti a lottare per un podio mondiale. Aggrappati anche troppo, elogiando e caricando di aspettative giovani che ancora dovevano dimostrare il loro valore vero.
Ora che il nostro vivaio è praticamente triplicato avremo anche più qualità? Forse sì o forse no. Perché è vero che è aumentato il numero delle gare, ma in Italia sono ancora pochissime le gare Internazionali. Il nostro cross è cresciuto ma in modo molto chiuso. I nostri giovani si scontrano sempre fra di loro. Non ci sono stranieri che vengono a correre da noi, ed i nostri vanno pochissimo fuori, un po’ perché qui di gare ce ne sono tante ed un po’ perché vengono stanziati pochissimi fondi per portare fuori gli azzurri in trasferta. Ci stiamo adagiando su di un bel calendario nazionale e non stiamo lavorando per nulla sulla cosa più importante di tutti: internazionalizzarci.
Questo è piuttosto evidente anche dagli ordini di arrivo nostrani. Se nel Mondiale abbiamo un ammasso di giovani arrembanti davanti, a cominciare da Pidcock secondo assoluto a 21 anni, mentre troviamo il primo delle vecchie glorie al 17° – Steve Chainel, nato nel 1983 – in Italia siamo piuttosto abituati a vedere gente che da 10 – 15 anni è ancora fra i primi 5 – 10 negli ordini d’arrivo perché non vengono scalzati dai giovani. L’interfacciarsi così scarsamente con l’esterno crea un ciclismo chiuso che non può sedersi sugli allori interni ma che si deve aprire e cercare di puntare in alto.
Chiaro che non si può andare ad un Mondiale pensando di lottare per la vittoria con alle spalle la partecipazione a treprove di Coppa del Mondo partendo dalle ultimissime file, tre gare internazionali e una ventina di gare regionali o nazionali, quando qualsiasi belga ha partecipato solo ed esclusivamente a gare internazionali intervallate a continue prove di Coppa del Mondo. È un po’ come mandare al Giro d’Italia dei corridori che non hanno mai preso parte ad una corsa a tappe in vita loro mentre il resto del gruppo gareggia a 10 – 15 gare su più giorni all’anno. Il paragone può sembrare assurdo ma non è così lontano dalla realtà.
Stefano Boggia (https://www.daccordicycles.com/it/)