Quando si parla di doping si rischia di incontrare sempre sguardi imbarazzati nel mondo dello sport. E certo la soluzione definitiva non sembra ancora vicina, pure se va dato atto che si sta facendo molto.
Stavolta, di doping ha parlato il professor Antonio Dal Monte in occasione di un riconoscimento alla carriera ricevuto: il premio Fair Play assegnato dal Panathlon di Varese e consegnato il 19 novembre 2011. Premiato, con l’insigne studioso, anche l’ex atleta nazionale olimpico, ed ora allenatore di canottaggio, Renato Gaeta.
Parlando di doping
Nella giornata dedicata al fair play l’argomento non è stato scelto a caso. Nello sport il problema etico spesso è legato proprio alle pratiche scorrette per il raggiungimento di un risultato che manca di rispetto agli avversari e a se stessi.
Nel palazzo comunale di Varese il professor Dal Monte ha ripercorso velocemente la storia del miglioramento della prestazione sportiva. Dagli atleti del mondo classico che si nutrivano delle carni degli animali di cui volevano imitare le caratteristiche, ai piloti tedeschi, caricati all’inverosimile di chimica da essere tanto temibili nei combattimenti quanto esuberanti, poi, negli atterraggi che molte volte portavano al danneggiamento dell’aereo.
Gli esempi, nel periodo moderno, sono ben conosciuti e da esperto dello sport e della medicina qual è, Dal Monte non ha messo il ciclismo al centro dell’argomento, una volta tanto. Certo, il caso Simpson è probabilmente uno dei più eclatanti, ma il professore ha puntato il dito contro sport che di sportivo (e di fair play) hanno decisamente poco: il body building fra tutti. «Le immagini parlano chiaro – spiegava – indicando immagini di fisici di uomini e donne deformati dai loro stessi muscoli ipertrofici».
«E certo non si tratta più solo degli stimolanti di un tempo – ha continuato – le conseguenze sul fisico sono devastanti e irrecuperabili. Ne vale davvero la pena?»
Un accenno alle droghe moderne è inevitabile: «Costano relativamente poco e passa l’idea che non facciano danni. Non è così: il danno c’è sempre ed è irreversibile». Una lezione che dovrebbe arrivare alle orecchie dei giovani.
Tornando al doping, Dal Monte si interroga sulla definizione stessa della parola: qualcosa che altera artificialmente la prestazione di un atleta.
«E allora mi viene pure qualche dubbio sulle ruote lenticolari che ho inventato: quelle un vantaggio lo davano effettivamente».
Speriamo che i censori dell’UCI non ascoltino questa riflessione, altrimenti spingerebbero ancora di più verso un medioevo tecnico, temiamo noi.
Prospettive inquietanti
Ma lo spettro del doping fa sempre più paura. E non solo perché “chi fa ricerca antidoping è sempre indietro rispetto a chi fa ricerca per progredire nell’inganno”, ma soprattutto perché le nuove frontiere sono inquietanti.
«Il doping genetico è una realtà – conferma Dal Monte – e chissà che qualcuno non abbia già percorso questa via. Gli esperimenti fatti sui topi sono terrificanti: non solo si può aumentare la potenza dell’atleta, ma si può inibire semplicemente la funzione che limita l’accrescimento spropositato di un muscolo.
«Inoltre è impossibile da trovare all’antidoping. Bisognerebbe conoscere le caratteristiche genetiche di un individuo, per poterne valutare eventuali modificazioni».
Facile, verrebbe da pensare a un passaporto genetico (ma si potrà fare?) ma vanno considerati anche i costi.
«Non avete idea di quanto possa costare un laboratorio di controllo – considera Dal Monte – immaginate una sala come questa (la sala Estensi, nel palazzo del Comune di Varese, è decisamente abbondante, ndr) – tutta piena di macchinari. E ognuno costa come un piccolo jet. I costi delle analisi sono elevatissimi».
Inoltre sono inquietanti le frontiere cui il doping genetico potrebbe arrivare. E praticarlo, forse, è più facile dell’impiego di altre sostanze.
«Basta un virus da iniettare nell’organismo per inoculare la sostanza dopante. Un virus che porti con sé un gene… e il danno è fatto».
Non dà molte speranze, Dal Monte, se non nella sana educazione di chi si avvicina allo sport.
«E non crediate che siano solo i soldi a muovere tutto – considera – se è vero che molte volte la ricerca dell’aiutino avviene da parte di atleti amatori che non puntano a far soldi ma solo a vantarsi».
Si potrebbe obiettare che comunque il movimento dei soldi è quello che spinge i “grandi” a barare. Ma certo non è trascurabile il fenomeno nei livelli più bassi (dove, peraltro, la tendenza al fai da te porta a rischi molto più elevati).
È un discorso culturale e di educazione. Il fair play, in fondo, inizia proprio dagli educatori che devono abituare ai valori giusti. Lo sport dovrebbe essere un piacere, prima di un vanto.