25 nov 2017 – I risultati più incoraggianti del ciclismo italiano stanno arrivando dalla pista. Merito di anni di investimenti in questo campo, nonostante la scarsità del numero di velodromi a disposizione sul territorio nazionale. Perché questo è un problema grave: i velodromi sono pochi, spesso costruiti in punti non raggiungibili facilmente, ovvero non vicino a strade di grande comunicazione e molti sono in uno stato quasi abbandono. Ma le cose veramente gravi per il movimento pista è che l’unico velodromo coperto in Italia è in Lombardia. La maggior parte dei velodromi sono gestiti da società multi sport, non da ciclisti. Il risultato è tragico: in tutta Europa si corre in pista d’inverno, mentre noi abbiamo l’attività sospesa da novembre ad aprile.
Eppure in tutto questo gli azzurrini sono riusciti a risalire la china e tornare ai vertici mondiali, dove non lo eravamo dagli anni ’70, quando la nostra nazionale sfidava le potenze dell’Est Europa. Merito soprattutto del Settore Studi che ha portato innovazione nell’allenamento.
La pista è fondamentale. Pochi sanno guidare in gruppo come un ragazzo che sia cresciuto nella pista. Le squadre Pro Tour – che ora sono tutte straniere – preferiscono scegliere un corridore che abbia nel suo palmares un passato anche in pista. Per un futuro stradista quindi la pista è fondamentale.
Rimane un però. Ovvero il futuro di un ragazzo che voglia dedicarsi solamente alla pista. A un certo punto della carriera in Italia diventa quasi obbligatorio specializzarsi nella strada in quanto è l’unica disciplina che possa garantire un ritorno economico. Si parla sempre molto di multidisciplinarietà, tutti sono consapevoli che sia la strada migliore per crescere un ragazzo, ma poi le cose non stanno veramente come vengono dette.
Dietro alla pista c’è un gran lavoro, ma attualmente una società che investa in una specialità che non sia la strada ha vita veramente dura. Stanno nascendo solamente ora le prime squadre che abbiano come attività principale la pista. Certo è che per vedere quanto sono messi in pratica i suddetti concetti di multidisciplinarietà basta dare uno sguardo alla categoria Giovanissimi: il meeting nazionale è incentrato sulla bici da corsa, con iscrizione obbligatoria alla manifestazione strada. La mountain bike è un’opzione. La pista è aperta solamente dai 10 anni in su, e comunque con bici personale. Le bici da pista vengono fornite al compimento dei 13 anni. Più o meno stessa situazione nel ciclocross, mentre la BMX – che in altre nazioni sforna grandi pistard e grandi stradisti – è praticamente inesistente.
Che la strada imboccata sia quella giusta lo dimostra soprattutto la nazionale femminile: le nostre ragazze sia in pista che su strada sono diventate un punto di riferimento del ciclismo femminile mondiale. Ma c’è da fare ancora tanto, e con i tempi biblici della burocrazia Italiana non sarà facile. L’importante è non sedersi sui freschi allora appena raggiunti.
Stefano Boggia