1 mag 2019 – Gli Americani, che di queste cose capiscono parecchio, dicono che per essere ben riconoscibile nel ciclismo, una maglia deve durare almeno tre anni. Questo è il tempo che ci vuole perché il pubblico si abitui ai colori di quel club e a individuare rapidamente i corridori che ne fanno parte.
Si parlava di questo ai tempi della Saeco, squadra molto americana (anche se non di tessera) per la presenza di uno sponsor forte come Cannondale che nella comunicazione sapeva come far parlare di sé, ricordate quando vestì tutti i corridori con le maglie a righe bianche e nere da reclusi per fare pubblicità a una bicicletta “illegale” che non potevano utilizzare perché troppo leggera rispetto al regolamento che impone il limite di leggerezza a 6,8 chilogrammi?. Poi le maglie d’occasione per Cipollini (soprattutto), che si trovò a essere nel perfetto stile americano del campione che supera il suo sport.
Ecco le nuove maglie
Il Team Sky è durato 10 anni, mese più, mese meno.
Finisce un progetto studiato a tavolino per il colosso della comunicazione britannico e si volta pagina. Arriva Ineos, sponsor che impareremo a conoscere presto, almeno nel nome e nelle grafiche. Che poi non cambia niente, si badi bene, né lo staff, né i corridori della squadra. È solo un avvicendamento di sponsor che vuole essere indolore per il team. E meno male.
Chissà Ineos, altro colosso, quando ha stabilito lo stop al suo ciclismo.
Ecco, ripensandoci di Sky ci lascia un po’ delusi questo: la freddezza di una scelta economica che lascia poco margine ad altri ragionamenti. E non è solo questione di dover rendere conto agli investitori.
Pensiamo a Tinkoff. Il magnate russo è stato, rispetto a Sky, quasi una meteora nel ciclismo. Ha fatto il suo team, ha speso tanti soldi, poi si è ritirato. Anche lì c’era un progetto economico (a cinque anni), ma lui ci avrebbe anche messo del suo se non si fosse trovato in contrasto con i vertici del ciclismo. Il suo ritiro, allora, è apparso (o fatto apparire) come un gesto di stizza. Un po’ come il campione che vince ma non come vorrebbe e allora basta.
Calcolo e sentimento: la differenza è qui. Quello di Sky è stato un progetto ambizioso e affrontato con tutta la modernità a disposizione: dalle operazioni economiche, alla tecnologia di biciclette e abbigliamento fino, ovviamente, alla preparazione meticolosa degli atleti con metodi che hanno fatto discutere perché apparivano, almeno fino a un certo punto, troppo calcolati, asettici.
Il risultato è stato ottenuto e pure ribadito: portare un britannico a vincere il Tour de France. Un modo di gestire la squadra che pure, figlio di calcoli, aveva messo paura al ciclismo. È destinato a diventare solo un calcolo matematico il ciclismo? Una distribuzione dello sforzo lungo una salita e vinca il più forte sicuramente, con buona pace di inventiva e invenzioni?
Lo stesso Bradley Wiggins a molti è cominciato a piacere quando ha smesso di correre, andando via dal Team Sky.
Anche Rapha, altro marchio britannico, che ha dato le maglie, per un periodo, alla Sky ha fatto un percorso di mero fine economico, fino a lasciare, addirittura, un mercato come quello italiano perché non considerato abbastanza redditizio per via di una concorrenza troppo forte. Stop, chiuso, anche se si era tutt’altro che in perdita.
Sì, ci ha spaventati questo metodo, poi sono anche successe cose che ci hanno fatto ricredere e forse hanno fatto ricredere gli stessi vertici della Sky che, a un certo punto, si erano trovati a gestire un’immagine che sembrava compromessa, con quell’affare Froome che sembrava tirare tutti giù per terra, anzi più in basso.
In quel momento Froome ci ha stupiti, perché se pure il via a un cambio di atteggiamento può essere venuto dall’alto, è lui che l’ha portato avanti dimostrando un carattere che lo ha fatto amare. È uscito fuori da quella sua immagine di corridore con lo sguardo fisso al misuratore di potenza (era nato anche un sito goliardico con foto del britannico sempre a fissare l’attacco manubrio) ed è diventato un campione a misura di ciclismo. A dire il vero aveva già dato dei segnali quando vinse un Tour de France… in discesa. Lui che all’inizio appariva pure in difficoltà quando la strada andava giù, aveva dimostrato a tutti che la discesa non è solo un istinto che hai oppure no. Ha dimostrato che si possono vincere le paure e andare oltre, per diventare campioni. E questo è molto “ciclistico”. Il pubblico ha cominciato a riconoscere il campione e ad apprezzare.
Complice forse un’immagine da recuperare il britannico si è anche prestato alle telecamere come non eravamo abituati. Anzi, come non era abituata la sua squadra, perché noi sì che eravamo pronti a ritrovare il ciclismo di sempre, non aspettavamo altro al posto di quei corridori che fanno il riscaldamento delle cronometro nascosti dietro al bus della squadra o dando le spalle al pubblico. Sembrava quasi un affronto al ciclismo, era solo un calcolo, ma non piaceva lo stesso.
Ora è il momento di Ineos, colosso del settore chimico arrivato al ciclismo più che per calcolo, per innamoramento del miliardario Jim Ratcliffe, che ne tiene le redini. Qualcuno ha già storto la bocca: si passa da una squadra che aveva sulle maglie lo slogan “Ocean Rescue” per il miglioramento climatico, a uno sponsor che potrebbe avere interessi se non in contrasto almeno in altre direzioni. Al momento sono solo chiacchiere e lasciamole lì, ammesso che dovessero mai riguardare il ciclismo.
Godiamoci il nuovo team che parla anche di un futuro del ciclismo. La Sky appariva come una eccezione nel ciclismo, chi ha tanti soldi da investire per una squadra di corridori in bicicletta? Invece ce ne sono eccome e, piaccia o meno, non si può più tornare indietro.
Guido P. Rubino