30 mar 2019 – L’appuntamento con Francesco Moser è nel piazzale davanti al suo maso. Odore di vino e visitatori accorti a far la spesa di qualche bottiglia e a curiosare timidamente.
Dov’è Francesco? Lo avevamo chiamato lungo la strada, a una mezz’ora da Trento, per avvisarlo dell’orario di arrivo. Ora siamo qui ma non serve mandargli un messaggio: “Tanto non li guardo”, ti risponde. Glielo concedi, ha ragione lui.
Non è ancora arrivato che ogni tanto senti vociare dalle vigne, voce inconfondibile, parole forse pure. Meglio non riportarle. Sa che lo aspettiamo e lo vediamo arrivar trafelato, in bicicletta. Scende dalla collina senza freni, una mano sul manubrio e con l’altra a brandire una pala, moderno cavaliere. Ha un po’ di terra addosso e ha finito di sistemare qualcosa. Chissà da che ora è sveglio. Prima di scendere di bici appoggia la pala su un muro, di slancio, poi fa una giravolta e torna indietro a salutare. “Eccomi, seguitemi, andiamo dove c’è li museo che ho una cosa da fare, intanto se volete fate qualche foto”.

Lo sceriffo ha già in mente il suo piano, poi torna e mostra le bici, iniziando dalla Torpado di Aldo: “È proprio come la sua, ma non è la sua, mi piace tenerla qui – con le mani indica le altre – vedi le Benotto, ho cominciato con queste, le faceva De Rosa, le riconosci dalle congiunzioni» Poi iniziando le biciclette marchiate, anzi firmate, Moser. La sua storia su un pezzo di velodromo riprodotto nel locale destinato a Museo di Moser. Ci cammina dentro, bofonchia qualcosa: il legno si sta rovinando: “Lo ha fatto un artigiano di qui ma deve rimetterci mano”.
Chiacchiere di campioni, compagni di squadra e corridori attuali. Non chiedetegli cosa avrebbe fatto, nel gruppo, oggi, vi risponderebbe come nel nostro video. Certo con quei rapporti forse avrebbe fatto di più, erano altre strade “Noi al massimo avevamo il 22, potevamo arrivare al 24 nelle tappe più difficili – racconta – Ho provato a fare la salita del mondiale dell’anno scorso, in Austria, avevo il 32 ed era necessario». Poi ammette: «Anche le gambe non sono più forti come una volta».
Ha le mani enormi Moser, ci avevate mai fatto caso? Le rotea nell’aria a sostenere le parole, dirige una sinfonia di concetti, quelli del suo ciclismo spesso in contrasto con quello attuale: «Dovrebbero mettere un limite alle squadre, se lasciano prendere a una corridori che farebbero i capitani altrove che senso ha? Vero che devono essere in tanti per fare tante corse, ma così è troppo. A volte mi sembrava troppo anche Merckx che aveva spesso squadre fortissime…»
Racconta i campioni con cui ha corso: Maertens in volata era il più forte. «Non c’era niente da fare, vinceva lui. Quando riuscivi ad affiancarlo poi lui aumentava, se non si fosse perso un po’… Faceva già le volate col 12!»
Racconta il suo Record, quella preparazione che l’ha portato a diventare il più forte di tutti sull’Ora quando nessuno ci credeva. «Una preparazione che a un certo punto si era pensata alla portata di tutti, ma poi vedi che fine hanno fatto quelli della Murella. I metodi van bene, ma ci voleva pure il fisico giusto per sopportarli, altrimenti ti spezzavi e non finivi nemmeno le corse».
Una chiacchierata che finisce davanti al suo vino, prima di scappare via di nuovo tra mille cose da fare. A un certo punto scatta in piedi e prende una bottiglia di plastica con l’acqua, annaffia le piante del locale delle degustazioni del vino “se non ci penso io le lasciano seccare”. Continuano a cercarlo tutti, anche Carlo, che arriva con un gruppo da presentargli. Se volete passarci dovete puntare su Gardolo e poi in salita. Non vi basterà nemmeno un’ebike, probabilmente, per arrivare fino a su, al maso. Roba da bruciare la frizione, oppure le gambe.
Guido P. Rubino (con la collaborazione di Alessandro Galli e Alessio Berti)
L’intervista completa sarà pubblicata sul numero 37 di Biciclette d’Epoca, in edicola a fine aprile 2019.
Parigi Roubaix, perché danno un pezzo di pavé? Ce lo dice Moser