28 giu 2020 – «Tutti», risponde Gianni Motta quando gli si chiede quali dei suoi progetti siano andati bene. E con “tutti” intende non solo la carriera da ciclista ma anche il mobilificio, il maglificio e persino la produzione di biciclette durata 25 anni. Oggi Gianni ha tirato un po’ sui freni e non si occupa più delle tante cose che hanno riempito la sua vita ma racconta sempre volentieri tante cose, tra cui ovviamente gli anni in cui ci si chiedeva se fosse il “nuovo Coppi” e dava del filo da torcere a un signore chiamato Eddy Merckx, di cui lui parla come se fosse uno dei nostri compagni di uscite in bicicletta.
Erano anni ovviamente diversi. Il ciclismo veniva su dalla strada e gli atleti non erano ancora quelli di oggi, portati al successo dalle squadre e “robotizzati” in gara. I talenti si scoprivano a volte per caso, semplicemente perché la bicicletta la si utilizzava (quasi) tutti anche negli spostamenti quotidiani. Gianni – come Ernesto Colnago prima di lui, con cui ha avuto e ha tutt’ora un legame molto forte – prendeva tutti i giorni la sua Atala condorino, a 16 anni, per andare a fare il pasticcere a Milano, alla Motta. Il proprietario era anche lui di Cassano d’Adda ma non erano parenti. I suoi genitori lavoravano entrambi lì e lì si erano conosciuti, amati e sposati. «E allora sono nato io, il Mottarello», ride Gianni con lo stesso sorriso che aveva nelle interviste quando correva.
Sorrideva beffardo in quasi tutte. Un po’ sfrontato, consapevole dalla sua forza e con il giusto veleno per diventare vincente in gara. «Mi piacevano tanto le Sei Giorni, erano un vero spettacolo», dice Gianni, che di corse nel catino ne ha vinte tante, a Milano, in coppia con Rik Van Steenbergen e soprattutto con Peter Post. Ma Motta era un vero assaltatore anche in gara, un amante dell’incendio improvviso, bruciante, a volte anche da subito come quella volta nel ’67, al Mondiale di Heerlen, quando attaccò fin da subito. Le cronache dicono a 8 km dalla partenza ma lui la vede diversamente. «Partii dopo neanche 500 metri, del resto l’avevo dichiarato. Se non avessero fatto venire fuori Jansen avrei vinto io, sicuro».
Di vittorie, comunque, Gianni Motta ne ha avute: un Giro d’Italia, due Romandia, un Giro della Svizzera, il Lombardia, tante Tre Valli e persino un terzo posto al Tour un po’ per caso, nel ’65, dietro Gimondi e Poulidor. Tante vittorie con l’unico rimpianto di aver perso anni per un grave incidente alla gamba, nel ’65 al Romandia, che per quasi un lustro gli avrebbe creato problemi finché il professor Cevese non lo salvò con un intervento miracoloso.
Ma quando tornò al 100% dal punto di vista fisico, arrivò il calo mentale. Erano anni diversi, Gianni aveva iniziato a lavorare e con la testa spesso era via, avvolto in altri pensieri. Arrivarono altri successi ma la fame era intermittente, anche se la gamba adesso c’era.
«Sono stato fortunato», dice, «poi le gare vanno come vanno. Senza l’incidente alla gamba avrei sicuramente vinto di più ma non posso lamentarmi». Non ci lamentiamo nemmeno noi, mentre ci racconta la sua vita. Se volete scoprire qualcosa in più, è a lui che abbiamo dedicato la copertina del numero 44 di Biciclette d’Epoca, adesso in edicola o online senza spese di spedizione cliccando qui.
Ale Galli