di Guido P. Rubino
Non c’era bisogno di trasformare in eroi i ciclisti, non così almeno. Perché se il ciclismo si alimenta di bei gesti e sofferenze, l’andarli a cercare sadicamente, sfruttando il voyeurismo innescato dal sangue diventa la soluzione grottesca non degna di una corsa di questo livello. E infilare i corridori in un imbuto, farli passare in un labirinto e nascondere l’arrivo con una semicurva che sembrava fatta apposta per shakerare il gruppo trasforma una tappa tranquilla in un clamore di cui parlare nel modo sbagliato.
Si straccia la logica, a terra anche Peter Sagan, quello che ci aveva abituati a recuperi impossibili. Gli addetti stampa delle squadre, intanto, si danno da fare per diramare il bollettino medico invece che quello dei piazzamenti dei corridori. Oggi vince chi riparte più che chi ha fatto un buon piazzamento. Sì, il Tour è così, si spinge di più, si affonda sul gas fino all’ultimo perché una frenata in meno può significare una carriera alla svolta.
Niente di nuovo in realtà, si stupisce solo chi non ricorda la storia e sì che gli organizzatori avevano voluto cambiare le prime tappe togliendo i soliti piattoni da volata scontata e che, in realtà, hanno cambiato poco le cose dal punto di vista tattico e, al più, hanno spostato i pericoli dall’arrivo ad altri punti del percorso dove stare avanti è diventato fondamentale. Si sono un po’ mischiati i numeri ma il risultato è stato lo stesso. Cercare la colpa è l’esercizio normale, diventa facile attribuirla alle strade, alla voglia di ben figurare nella corsa che è l’occasione della vita per tutti i corridori. E allora chi frena?
Già, si frena anche meno, si dice, perché con i freni a disco si può ritardare la staccata, si estremizza la guida, dovevano dare più sicurezza i freni a disco e hanno finito per far andare ancora più forte. E poi le biciclette troppo estreme e difficili da guidare pure con le capacità dei professionisti? Sì, si estremizza, ma la differenza è che qui è il Tour de France, dove tutti questi discorsi si sommano e nelle loro piccole verità ne fanno una unica: il Tour de France è la corsa dell’anno per tutti.
Lo dissero chiaramente l’anno scorso quando la pandemia metteva a rischio anche il ciclismo: si può saltare tutto, ma non il Tour de France. Senza la corsa francese più della metà dei tea worldtour sarebbero a rischio bancarotta.
Quindi davanti, a spingere di più, a osare infilandosi nell’impossibile, frenando meno. È questione di statistica e il risultato quasi ovvio. Col rischio di veder snaturare l’agonismo per colpa dei ritiri. D’altra parte il campione è anche quello fortunato, non si dice così?
Stavolta, però, sembra essere andati un po’ oltre, ma l’UCI continua a spalleggiare gli organizzatori invece che metterli di fronte a qualche responsabilità. Ma i percorsi sono stati approvati dagli stessi giudici UCI. Difficile fare autocritica, anche con le evidenze davanti agli occhi.
Ci vogliono i campioni, non gli eroi allora. Campioni in conferma, come Mark Cavendish che ha vinto una volata insperata ma sempre creduta (da lui). Altri in arrivo, come Brent Van Moer, aspirante De Gendt.
30 giu 2021 – Riproduzine riservata – Cyclinside