1 nov 2020 – In un silenzio un po’ imbarazzato e imbarazzante è tramontato, all’ombra del Giro d’Italia, il Giro-E. Si tratta di una manifestazione cui si partecipa con delle e-bike da corsa, le e-road, che vedono la partecipazione di squadre composte da sei ciclisti a “sfidarsi” in prove di regolarità e con uno sprint finale.
Perché funziona il Giro-E?
Il bello del Giro-E è che nelle squadre ci sono dei capitani (solitamente ciclisti esperti) e poi altri partecipanti che possono essere invitati da sponsor e a pagamento. Sì, ovviamente è business, c’è la visibilità mediatica della Gazzetta dello Sport e questo è un valore quantificabile che dà un ritorno a chi investe ad allestire una squadra.
I dubbi
Soprattutto, il Giro-E dovrebbe servire a presentare un prodotto, la bicicletta da corsa a pedalata assistita, che tutto è fuor che agonismo. Vero che anche l’UCI sta organizzando gare di regolarità con queste biciclette particolari ma, al momento, la presa di posizione del massimo organismo del ciclismo internazionale appare più un segnare il territorio là dove era pronta mettere un segno (e l’aveva già messo, anzi) la FIM, la Federazione Internazionale di Motociclismo.
Ecco allora che hanno poco senso gli “sprint” (anche solo dei capitani, ma perché poi?) e tutte le connotazioni che riportano a un aspetto agonistico, sia pure per divertire, se queste poi diventano per chi partecipa, preponderanti sul resto al punto da “puntare a vincere il Giro-E”. Si rischia di stravolgere il senso dell’e-bike da corsa che è una bicicletta con cui poter pedalare piacevolmente insieme ad amici più allenati o per fare giri più lunghi e difficili a dispetto di un allenamento scarso.
Niente agonismo, quindi, perché non avrebbe senso e, anzi è pure controproducente rispetto a un prodotto su cui già molti puntano il dito temendone una deriva agonistica.
Gli stessi costruttori, ne abbiamo sentiti alcuni, non sono molto per questa idea: «Finisce col passare il messaggio di una bicicletta che serva per fare agonismo – ci ha detto il responsabile di un marchio che pure partecipava al Giro-E – e nei negozi i clienti vogliono acquistarla già sbloccata (ossia con motore modificato per assistere la pedalata anche oltre i 25 km/h, ndr) per andare dietro a quelli che vanno a tutta in pianura. Ci piacerebbe più far passare un messaggio di condivisione».
Le opportunità
È il caso, insomma, che qualche squadra partecipante riveda il suo organico e spieghi meglio la cosa per sfruttarne meglio le possibilità. Al tempo stesso chi organizza deve avere chiaro fino in fondo il senso delle e-bike e del messaggio che si fa passare da una manifestazione che, fino a questo momento, ha fatto fatica a decollare dal punto di vista mediatico a dispetto dell’impegno economico profuso.
Vedere ex corridori che si sfidano in una volata per “vincere” pone qualche domanda. E qualcuno, infatti, voleva andarsene scocciato dalla situazione rendendosi conto dell’immagine discutibile che ne usciva. Probabilmente va spiegato anche a sponsor esterni al mondo del ciclismo che non si tratta di una gara da vincere ma, come hanno fatto altri, di un evento da sfruttare anche per far passare dei bei messaggi, come ad esempio ha fatto il team Fondazione Michele Scarponi, al via per sensibilizzare sul tema della sicurezza stradale. In questo senso, anzi, ci sarebbe molto da dire e da raccontare, così come hanno fatto, anche in questa edizione troncata nel silenzio più generale di tanti media di settore. Ma è, anzi, un evento che per la sua portata deve essere allargato oltre il ciclismo, non solo per quanto riguarda gli sponsor da sedurre. Altrimenti, così come sono arrivati, rischiano di andare via.
GR