di Guido P. Rubino
27 mag 2021 – Avete mai provato a fare forza su qualcosa con una spugna? Certo che no, un’energia si può applicare con una leva, un cuneo, a volte un martello, oppure un ariete.
Con una spugna no, vi rimbalza indietro, ci si affloscia sopra. Pensate se aveste una spugna come una possibilità per spingere sui pedali. Con una spugna i meccanici lavano la bici, i ciclisti, al più, la usano per farne appoggio: sui manubri del pavé, o nelle selle. Cose sofisticate ormai.
Per pedalare ci vogliono leve in alluminio lavorato, fibra di carbonio, una volta acciaio. E poi muscoli affilati, rifiniti, disegnati, solcati da vene come nel marmo pregiato.
Che c’entra la spugna?
È il materiale in cui sembrano trasformarsi le gambe in certi momenti. Quelle di Bernal, ad esempio, salendo verso Sega di Ala, nome già poco felice ma nel buio di una foresta che all’improvviso è diventata buio morale, selva oscura nel Giro dedicato a Dante.
Spugna. Spingi e non girano, non fanno forza, sono vuote, molli, cedevoli, tolgono l’aria, non basta il respiro. Pensi che sei andato troppo forte prima, mentalmente ripassi al volo l’errore, cerchi di individuarlo, uno scatto di troppo, un’accelerazione dove ti sentivi forte ma, a ripensarci, c’era già un campanello d’allarme. Perché le gambe non erano “piene” come due giorni fa. Ora manca qualcosa, non è bastato più, forse un gel, una borraccia in meno. Forse solo uno scherzo del tuo corpo a ricordarti che sei umano e non un fumetto che basta disegnarlo.
Non c’è neanche più modo di pensare. Non basta più, non basta più.
Si va avanti d’istinto a spingere sui pedali, rallentando un attimo a sperare in un miracolo, rallentando un po’ perché non si può fare altrimenti.
L’arrivo, allora, è una liberazione e non importa più neanche il risultato, ma è solo il tempo di riprendersi, far fare al fisico quello cui è più abituato: recuperare rapidamente.