di Gino Cervi
Ieri mattina, 6 ottobre, nel corso dell’udienza papale in Vaticano, tra gli oltre 6000 spettatori in attesa dell’incontro con papa Francesco, c’era uno drappello di francescani. Se fossero stati frati minori la notizia non sarebbe stata una notizia. I “francescani” in questione erano invece i rappresentanti dell’associazione, La Francescana Ciclostorica ASD, che da undici anni organizza uno dei più famosi e apprezzati raduni ciclistici, a Foligno (lafrancescana.it). Vestiti della loro sobria ma inconfondibile divisa ciclistica, una maglia nera fasciata di bianco sul petto, i francescani folignati nella folla un po’ meno folla della sala Nervi, attendevano il passaggio del Papa, pressoché loro eponimo, così come si aspetta su un tornante dello Stelvio o del Pordoi il passaggio del campione preferito. Non l’aspettavano soltanto per salutarlo, per stringergli la mano o strappargli un sorriso. Ma anche per donargli qualcosa. Ma facciamo un passo indietro.
Lunedì mattina, 4 ottobre, giorno di San Francesco, santo patrono nazionale, una delegazione de La Francescana si era ritrovata in piazza del Vescovado, ad Assisi, davanti alla chiesa di Santa Maria Maggiore. Conosciuta anche come Santuario della Spogliazione, in memoria del luogo in cui Francesco si spogliò, materialmente e simbolicamente, di tutti i suoi averi per abbracciare la vita in perfetta povertà, dal 2018 la chiesa ospita al suo interno i documenti e i memorabilia del Museo della Memoria (1943-44), istituito per testimoniare l’esperienza di chi, durante la guerra, ad Assisi, operò per salvare la vita a centinaia di ebrei perseguitati dai nazifascisti. Qui si trovano anche gli arredi della cappellina privata di Gino Bartali, che alcuni anni fa le nipoti del grande campione fiorentino hanno donato al museo: un piccolo altare, un inginocchiatoio in legno e la statua di Santa Teresa del Bambin Gesù.
È proprio Bartali il filo che lega i francescani – nel senso dei ciclisti folignati – ad Assisi, dove Ginettaccio arrivava da Firenze per portare, nascosti nel canotto reggisella, i documenti falsi che servivano all’espatrio degli ebrei. Ed è all’insegna del messaggio di pace e libertà che Luca Radi e Giada Bollati, e la loro compagnia pedalante “in perfetta letizia” – Daniela Fabbricini, Pamela Micanti e tanti altri –, hanno ideato un pellegrinaggio molto particolare: in bicicletta da Assisi a Roma, all’udienza papale, per consegnare a Papa Francesco un messaggio che faccia risaltare il “naturale francescanesimo” della bicicletta.
Con loro, non a caso, quella mattina ad Assisi c’era Gioia Bartali, nipote del grande Gino. Ed è proprio dalla sua voce che troviamo conferma della suggestiva sintonia che lega la memoria storica, privata e collettiva, di quegli anni difficili e terribili dai quali il nostro paese ha trovato la forza morale e materiale di rialzarsi, al valore condiviso della bicicletta. «Da anni raccolgo continuamente testimonianze di quanto la figura di mio nonno sia entrata nella memoria e nei cuori degli italiani – dice Gioia -. Come esempio di campione sportivo, prima di tutto, con quel significato di riscatto popolare che voleva dire, nei primi anni del dopoguerra, appassionarsi per le imprese di un italiano che vinceva nel mondo e tornava a dare motivo di orgoglio di appartenenza a una nazione segnata dalle ferite di una guerra. E poi, da quando si è venuti a conoscenza del contributo dato alla lotta clandestina per salvare gli ebrei, anche come singolare modello di “anti-eroe” quotidiano». Un esempio di eroismo non esibito, anzi tenuto a lungo e il più possibile lontano dal diventare di pubblico dominio: solo dopo la sua morte si venne a sapere dei suoi viaggi-allenamento, da Firenze ad Assisi, e da allora il suo motto più famoso non fu più “l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”, ma “il bene si fa ma non si dice”.
«La cosa che più mi colpisce – continua Gioia Bartali – è come ancora oggi, andando in giro nelle scuole e in altri luoghi a parlare di mio nonno (e raccogliendo il testimone di quello che fino a pochi anni fa aveva fatto mio padre Andrea) vengo a conoscenza, attraverso testimonianze, fotografie, autografi, di quanto la gente volesse bene a mio nonno, anche se magari non lo aveva mai visto correre in bicicletta, ma solamente perché qualcuno, i nonni, i genitori, gli avevano parlato di lui come si parla di un grande personaggio della nostra storia del Novecento». Proprio così: e questa è ancora la potente magia delle storie di ciclismo che, più di tutti gli altri sport, sa raccontare se stesso e il proprio passato, tramandandone i miti e le passioni di generazione in generazione.
In questi anni, di quel naturale sentimento di fratellanza e di spiritualità ciclistica così bartaliano e, in fondo, così “francescano”, i “francescani della Francescana” si sono fatti gregari. Ne hanno lasciato gioiosa testimonianza tracciando, intorno al loro evento settembrino, itinerari pieni di bellezza lungo le strade minori della Valle Umbra, tra storia, arte e natura. E chiamando a raccolta gente a pedali da tutta Italia, invitandola ad apprezzare come il passo cadenzato della bicicletta possa sia il modo giusto e sostenibile per tornare a godere e a rispettare la meraviglia del mondo creato. Partendo da questi presupposti era naturale che il loro percorso si facesse strada anche verso Roma, ripercorrendo in qualche modo l’antico cammino che Francesco, otto secoli fa, aveva intrapreso per avvicinare e far conoscere la sua semplice, ma rivoluzionaria visione del mondo, al Papa.
Così, benedetti da monsignor Domenico Sorrentino, vescovo della diocesi di Assisi, Nocera Umbra e Gualdo Tadino, i “francescani” hanno preso la via dell’Urbe, simbolicamente rappresentati da un solo intrepido pedalatore. Enrico Roberto Carrara, bresciano di origine, ma da anni adottato dalla Valle Umbra, e dai francescani folignati, ha pedalato nella giornata di ieri, martedì 5 ottobre, per 180 km che separano Assisi da Roma. Lasciatasi alle spalle Assisi all’alba e ha percorso la “fascia olivata” candidata a diventare Patrimonio dell’Umanità: Spello, e poi Foligno – dove il poverello di Assisi vendette stoffe pregiate per ricavare i denari per riparare la piccola chiesa di San Damiano in rovina –, quindi Trevi, Campello sul Clitunno Spoleto. Da lì, in direzione Terni, e poi Narni, e seguendo la storica direttrice della valle del Tevere, ha puntato verso Roma. La pioggia gli ha cambiato un po’ i programmi e gli itinerari, ma alla fine, nel pomeriggio è arrivato a Roma.
Enrico è un cicloviaggiatore di passo esperto e di lungo respiro: ha girato il mondo in bicicletta, puntando a mete dal significato particolare, come quella dello scorso autunno, quando dall’Umbria ha raggiunto Brescia e da qui ha intrapreso il drammatico itinerario sulle tracce della storia di uno zio ebreo, Roberto Carrara, deportato e poi ucciso a Mauthausen.
«Sono partito alle 6 da Assisi e fino a Spoleto, anche per la bellezza dei luoghi inanellati dal mio percorso, è stato un bel viaggiare. Poi si è scatenato il diluvio. Una pioggia battente non mi ha mai abbandonato fino a una sessantina di chilometri da Roma. Questo mi ha obbligato a cambiare i programmi: da bravo pellegrino avrei preferito viaggiare sulle strade secondarie, quelle meno battute dal traffico, facendo anche alcuni tratti in sterrato. Ma con questo maltempo non sarei mai arrivato prima di sera. Allora sono stato costretto a scegliere i tragitti più rapidi, anche se non i più sicuri. Traffico e pioggia in qualche punto mi hanno messo un po’ in difficoltà. Ma il senso del viaggio, e se vogliamo del pellegrinaggio è in fondo questo. Bisogna mettere in conto che ci si deve misurare con gli imprevisti e le incognite. Anzi, è proprio questa dimensione di incertezza che rende più interessante, e più piena di occasioni per riflettere, l’esperienza del viaggio».
Enrico è arrivato alle porte di Roma a metà del pomeriggio, facendosi inghiottire dal traffico, ma approfittando della ciclabile della Tiberina, che affianca il corso del Tevere e conduce fin nel cuore di Roma. Qui, Enrico è stato ospitato come un vero pellegrino a pedali, Spedale della Provvidenza di San Giacomo e San Benedetto Labre, in via dei Genovesi, a Trastevere. Qui ha passato la notte in attesa dell’incontro della mattina seguente.
«Ero emozionato. Ho aderito con piacere all’invito di Giada e Luca. L’ho fatto con spirito di servizio e perché mi piace il modo con cui quelli della Francescana fanno le cose: con semplicità e discrezione, stando sempre un passo indietro rispetto al mettersi in mostra attraverso l’evento che organizzano, molto bene, da parecchi anni. È per questo che ho deciso di fare da “staffetta ciclistica” per il messaggio che abbiamo voluto portare a Papa Francesco».
E siamo dunque arrivati al gran giorno. Mercoledì 6 ottobre, Enrico ha raggiunto il Vaticano in bicicletta, l’ha lasciata in affido presso un bar di simpatici ragazzi cinesi e si è unito agli altri “francescani” che attendevano di entrare nella sala Nervi per l’udienza papale. Luca, Giada, Pamela, Daniela, Enrico e altri hanno atteso che il Papa commentasse le letture dell’omelia. Guarda caso si legge un brano della Lettera di San Paolo apostolo ai Galati in cui si parla di libertà. E Bergoglio la commenta soffermandosi sul valore della libertà, non come diritto acquisito ma come un bene da custodire, ricordando che è un tesoro che si apprezza quando qualcuno ce la toglie.
E le parole che i “francescani” stanno per consegnare a papa Francesco sono piene del senso di libertà che regala l’andare in bicicletta.
«Siamo La Francescana, viviamo nei luoghi che ispirarono Il Cantico delle Creature, l’antica poesia nata nel 1224 in questa terra, dedicata alla natura e alla bellezza del creato. Andiamo in bicicletta sulle colline, nelle campagne e tra i borghi che videro la nascita di questi versi ineguagliabili. Pensiamo che ognuno di noi debba lavorare quotidianamente per la custodia del creato, per tornare alla natura e che a cavallo di una bicicletta sia un bel modo per farlo. Siamo solo una goccia d’acqua, ma nella goccia c’è la forza del tutto. Siamo certi che un giorno saremo fiume».
Terminata la funzione, Bergoglio attraversa la sala piena di gente. Come al solito viene chiamato da cento voci, mille mani si allungano per salutarlo. Ma in tanta moltitudine non gli sfugge il gruppetto bianco-nero della Francescana, che sorridendo gli porge la pergamena, col timbro episcopale di Assisi del 4 ottobre, e col messaggio riportato qui sopra. Ma soprattutto con la bellissima maglia da ciclista, bianca con la fascia nera in mezzo, e con lo stemma pontificio in alto a sinistra, sul cuore. Papa Francesco si avvicina e chiede: «È per me?». Poi la prende tra le mani e sorride.
Laudato sì, mi’ Signore, per nostra sorella bici / che ci accompagna nel mondo e che ci rende amici.
7 ott 2021 – Riproduzione riservata – Cyclinside