1 ott 2020 – «Una via di mezzo tra le bici da strada e la mountain bike»: il segmento più giovane – e aggiungiamo anche quello di maggior successo – del moderno “universo bici” è stato sinteticamente codificato così, quando cinque, sei anni fa si è fatto spazio sul mercato: parliamo delle gravel bike, a tutti gli effetti la tipologia di bicicletta che nel mondo sta letteralmente spopolando e che da circa un anno sta registrando volumi di vendita importanti anche in Italia.
Ma siamo proprio sicuri che questa definizione sia corretta? A giudicare da quel che negli ultimi mesi sta proponendo l’industria di settore ci sarebbe da “rivedere il tiro”.
Il perché di un successo
La popolarità e il successo commerciale delle “gravel” ha origine dal carattere versatile e polivalente che hanno questi mezzi: questa tipologia di bici ha avvicinato al ciclismo soprattutto chi cercava un mezzo con cui fare quasi tutto e andare quasi dappertutto, che coprisse tutto quel “mare” di situazioni di utilizzo che in bicicletta separa i tecnicismi nei trail propri del mountain biking con le velocità e le prestazioni tipiche del ciclismo stradistico puro; appunto, con la bicicletta si possono fare mille altre cose, e la “gravel” in questo senso è il mezzo perfetto, è mezzo che ti permette di fare tutto.
La segmentazione e i suoi limiti
Versatile una gravel lo è sia dal punto di vista della sua destinazione d’uso, ma anche dal punto di vista della sua impostazione tecnica, delle sue caratteristiche. Sì, perché proprio la grossa diffusione che negli ultimi anni ha conosciuto questo genere ha portato ad un’offerta prodotto sempre più ricca e variegata da parte dei costruttori. Oggi se vuoi comprare una “gravel” puoi trovare soluzioni di ogni tipo, appunto perché numerosissime sono le configurazioni, gli allestimenti e le versioni di questo genere in fondo così ampio, indefinito e trasversale.
Qui sta il punto: per codificare una bicicletta la cosa peggiore che oggi si possa fare è inserirla rigidamente entro una categoria, un segmento. Provando, ad esempio, a catalogare il genere “gravel”, oggi è di fatto possibile trovare soluzioni le cui caratteristiche tecniche hanno una matrice e uno “spirito” più vicini al mondo dell’asfalto o in genere dei percorsi compatti, altre invece più vicine alla mountain bike, ovvero che hanno un’estrazione più fuoristradistica. Ecco, questo secondo genere è sicuramente quello che negli ultimi tempi sta trovando grande diffusione da parte dell’industria ciclistica.
Confini sempre più indefiniti o sovrapposti
Sul versante opposto, invece, è possibile accorgersi di un confine sempre più indefinito e indecifrabile tra quelle che – solo per necessità di semplificazione terminologica – potremmo chiamare “light gravel” e quelle che invece sono le bici da corsa del segmento endurance, destinate alle granfondo o alle lunghe distanze. A guardare bene anche queste ultime sono oggi concepite con caratteristiche tecniche che assegnano loro sempre maggiore versatilità e polivalenza, prima di tutto grazie a una tolleranza con coperture sempre più generose, ben oltre le 30 millimetri di sezione.
Dovremmo allora chiamarle “gravel bike”? O forse dovremmo chiamare “bici endurance spinte” tutte quelle gravel con caratteristiche meno votate al fuoristrada? Per orientarsi e distinguere tra i due genere c’è chi chiama in causa le quote angolari, che parlano di sterzi più “aperti” per le vere gravel e un po’ più “chiusi” per le “endurance”. Ma anche in questo caso, se vai a vedere le tabelle misure dei vari marchi, ti accorgi che anche a livello angolare non ci sono affatto regole e impostazioni univoche che permettono di inserire un modello in una categoria piuttosto che un’altra. Lo ripetiamo, allora: meglio uscire da queste asettiche “gabbie terminologiche” e scegliere invece una bici in base a quelle che davvero sono le reali esigenze di utilizzo, quelli che sono i percorsi prevalenti che con quella bici vogliamo fare.
La tendenza: gli esempi di Basso e Bmc
Chiarito questo, è evidente che l’industria di settore in questi ultimi tempi sta investendo moltissimo su biciclette sempre più capaci di affrontare terreni non asfaltati, modelli sempre più votati alle strade bianche, anzi al limite del mountain biking.
La Basso Tera di cui abbiamo parlato qui è solo uno dei tanti esempi, lei e il suo carro posteriore in alluminio che flette grazie ad un punto di infulcro e che grazie a quello consente di assorbire meglio i colpi dei fondi dissestati cui è (principalmente) destinata. Sulla stessa linea possiamo inserire la Bmc URS: anche in questo caso il carro posteriore ha la
capacità di flettere in seguito alle sollecitazioni, con la differenza che qui al posto di un punto di infulcro troviamo la tecnologia proprietaria MicroTravel con degli elastomeri incastonati suo foderi posteriori, che assecondano la flessione verticale dei foderi bassi quando la bici riceve i colpi dal terreno. In più, la gravel di riferimento della Casa elvetica, ha anche una geometria peculiare, ereditata dalle vere mtb 29er: significa che il passo totale (ossia la distanza tra i due mozzi) è maggiore rispetto a quel che accade sulle “normali” gravel, ovvero è assimilabile a quello delle 29 pollici.
Questo è il motivo per cui di serie la URS monta un attacco manubrio molto compatto e questo è il motivo per cui, se su questa bici si monta una piega flat, a tuti gli effetti otteniamo un mezzo assimilabile a una mtb 29er.
La via Cannondale al gravel biking
Ancora in tema di “hard gravel” emergenti e interessanti chiamiamo in causa Cannondale, lei e la soluzione tracciata con la piattaforma TopStone Carbon introdotta lo scorso anno e testata a lungo da Cyclinside.
Così come per la Basso Tera, anche in questo caso il telaio (tutto in carbonio) adotta un’originale architettura con carro infulcrato, con la differenza che qui a flettere in seguito alle sollecitazioni del terreno non è solo il carro, ma tutto il telaio, compreso il triangolo principale grazie alle sue sagome e ai suoi spessori peculiari. In più, per chi ha in programma di affrontare fondi davvero impervi, la piattaforma Topstone Carbon ha da quest’anno anche l’opzione Lefty (che Cyclinside ha presentato qui e nel video in questo articolo), allestita con l’omonima sospensione anteriore monostelo, simile a quella che la Casa americana utilizza sulle sue mtb (con la differenza che in questo caso escursione e tipologia della compressione sono tarate in base alle differenti necessità del gravel biking).
Con Niner spazio a una vera gravel “full”
Quella della Topston Carbon Lefty è di sicuro una soluzione molto votata all’off road, al punto che alcuni la assimilano a una full, ovvero a una biammortizzata esattamente come fosse una mtb. In realtà la soluzione elastica che utilizza il telaio non è assimilabile a una vera sospensione, visto che il punto di infulcro è soltanto uno, pertanto questa architettura è più ascrivibile ad un ingegnoso ed efficace sistema per assorbire passivamente i colpi, e farlo senza incidere sul peso complessivo del mezzo.
Diverso invece è il caso della Niner MCR 9 RDO, che noi di Cyclinside abbiamo avuto l’occasione di provare in un recente evento organizzato dalla BCA, in Trentino. In questo caso il telaio, interamente in carbonio, adotta il sistema di ammortizzazione proprietario chiamato CVA (mutuato dai modelli Niner da mtb): lo schema è quello di un vero four bar con doppia biella, con la sospensione posizionata verticalmente. Il tutto garantisce alla ruota posteriore un’escursione che nella fattispecie è settata per un fuoristrada “leggero” come potrebbe essere quello del genere gravel: 5 sono i centimetri concessi alla ruota (di cui 1 è quello assorbito dal sag), che si uniscono ai 4 centimetri garantiti dalla forcella anteriore, una Fox AX, anche questa specifica per il gravel biking.
Sui trail con una gravel biammortizzata
Nella breve prova che abbiamo effettuato sui trail intorno ad Andalo la MCR 9 RDO si è rivelata una bicicletta incredibilmente divertente. Abbiamo testato una taglia 56, allestita con una trasmissione Shimano Grx di classe 800, accoppiata a una guarnitura monocorona Easton e un paio di leggerissime ruote Stans Notubes Grail CB7 in carbonio.
A completare il tutto c’era un reggisella telescopico KS Lev C1. A detta del responsabile Niner per l’Eruropa Phillip Luca il peso dell’allestimento in oggetto è di 13 chili (senza pedali); troppi? Affatto. E roa vi spieghiamo il perché: con la MCR 9 RDO abbiamo “girato” sia sulle classiche strade sterrate compatte, sia su trail mediamente tecnici e infine abbiamo girato su asfalto, situazione nella quale la bici ha messo in campo tutta la praticità del lock-out di entrambe le sospensioni, che consegna un mezzo (quasi) uguale ad una rigida (un po’ di travel rimane comunque, e aggiungiamo che questo è un vantaggio se si utilizza il blocco sugli sterrati compatti).
Ma il bello è arrivato sul fuoristrada tecnico, o meglio su situazioni e condizioni che a una vera mtb farebbero sorridere, ma che metterebbero in seria difficolta una gravel nella sua connotazione “tradizionale”, ovvero rigida: al cointrario la MCR 9 RDO si è rivelata incredibilmente precisa nel copiare asperità che con una rigida ti farebbero sobbalzare, o quantomeno terrebbero più impegnati e allertate le gambe, chiamate ad assecondare le asperità. Ci pensa invece la sospensione posteriore a digerire ostacoli anche relativamente impattanti, e assieme a questa lo stesso lavoro – e con le stesse proporzioni di travel – lo fanno i 4 centimetri di escursione della Fox AX, che si sfruttano tutti in pieno e che sono sempre estremamente precisi, lineari. A spingerti ad osare su situazioni ancor più tecniche e ripide ci pensa poi il reggisella telescopico, che azioni facilmente e intuitivamente con il comando sinistro del Grx. Quando sei lì in discesa a destreggiarti nei passaggi tecnici ti vengono in mente le sensazioni tipiche del mountain biking, con la differenza che qui la posizione di guida è quella imposta dal manubrio “drop” (anche se di quelli “flare”, migliorano non poco manovrabilità e maneggevolezza). È al contrario quando passi su posizioni più scorrevoli che torni a goderti sensazioni di velocità e di rilancio tipiche dello stradismo, quelle che le 29er non potranno avere, vista la loro geometria essenzialmente differente.
E infine la salita, che è forse il risvolto positivo più inaspettato di questa bici incredibilmente divertente: sui tratti con sassoni o con sassi smossi ti basta aprire le sospensioni per dimenticarti subito dei tredici chili di peso di questo mezzo, per goderti invece tutta la trazione di una sospensione posteriore incredibilmente sensibile, che copia perfettamente le asperità del terreno.
Non ho dubbi; sarà una bici sui generis e sicuramene una bici di nicchia, ma certamente la Niner MCR 9 RDO è la bici più divertente che mi è capitato di provare negli ultimi tempi.
Da Niner un’altra novità camaleontica
Lo spazio dedicato alle gravel, e in particolare a Niner, ci da l’occasione per dare spazio e visibilità a una fresca new-entry del marchio del Colorado: la nuovissima RLT e9 RDO (ma quanto sono complicati questi nomi?) è una bici a pedalata assistita che è un po’ una gravel e un po’ una 29er, un po’ una bici da commuting e un po’ una mtb 29. A ricordare la sua natura poliedrica e polivalente il produttore la definisce infatti un mezzo “overland”, ossia oltre i confini. Costruita con un telaio in carbonio, la RLT e9 RDO alloggia una motorizzazione centrale Bosch Performance Line CX unita a una batteria da 625wh alloggiata nel tubo diagonale.
L’avantreno ha una configurazione geometrica che eventualmente permette di sostituire la forcella montata di serie con la forcella ammortizzata di una 29er, genere cui questo mezzo è apparentato anche per quel che riguarda il passo totale (più prossimo a una mtb che a una gravel). Conforme ai canoni delle vere bici “a ruote grasse” è anche l’impiego di uno standard di fissaggio delle pinze disco post-mount (con adattatori flat-mount per la configurazione di serie), che è appunto lo standard tipico del mountain biking e che predispone il mezzo all’eventuale montaggio di impianti frenanti mtb.
Immancabili, sua una bici di questo genere, sono i fori per la predisposizione al bikepacking più spinto e per l’eventuale montaggio di una dinamo sull’avantreno.
Maurizio Coccia