C’è una linea che unisce Jannik Sinner e Tadej Pogacar, anche se tennis e ciclismo sembrano mondi distanti. Entrambi sono giovani, entrambi hanno raggiunto l’élite presto, molto giovani, entrambi mostrano già i segni di un logorio che un tempo arrivava molto più tardi, almeno nel ciclismo. È il riflesso di un sistema che non aspetta più, che chiede il massimo sin dall’inizio e che rischia di bruciare i suoi talenti nel pieno della giovinezza.
Cincinnati, finale senza finale
Il 18 agosto 2025 il pubblico del Cincinnati Open si aspettava l’ennesima battaglia tra Jannik Sinner e Carlos Alcaraz, il duello che incarna il futuro del tennis. Invece la finale è durata appena ventitré minuti: sullo 0-5 nel primo set, Sinner ha alzato bandiera bianca, piegato da un malessere che lo tormentava già da un po’.
Un’uscita di scena così rapida non è stata solo una delusione per il pubblico, ma un segnale forte: dietro la ritirata di un campione ci sono i carichi di un calendario feroce e una mentalità che non prevede pause.
La forza mentale che diventa trappola
Sinner non è mai stato un atleta che si tira indietro. Al contrario: la sua forza è la determinazione assoluta, la capacità di non mollare mai. Qualche giorno fa, a fine partita, ha chiesto subito al suo staff di prenotare un campo per allenarsi. È una fame che costruisce i campioni, ma che può trasformarsi in una gabbia.
Perché la mente spinge sempre avanti, mentre il corpo, a un certo punto, si ribella. E quando il fisico cede, anche la testa ne subisce le conseguenze: arrivano la frustrazione, la paura, persino la tentazione di mettere tutto in discussione.
Pogacar, stanco a 26 anni?
Lo stesso schema si è visto con Tadej Pogacar. Non è apparso semplicemente meno brillante: nell’ultima settimana del Tour de France è sembrato stanco, logorato, al punto da ammettere di aver pensato già alla fine della carriera. Dichiarazioni incredibili, se si pensa che ha appena 26 anni.
Un tempo, quell’età segnava l’inizio del periodo d’oro per i ciclisti. Bernard Hinault a 26 anni stava entrando nella fase più dominante della sua carriera, Miguel Indurain iniziava a scrivere il suo quinquennio leggendario, Vincenzo Nibali conquistava il suo primo Grande Giro. Oggi invece un corridore della stessa età parla di ritiro: un ribaltamento che racconta più di mille statistiche.
Il nuovo modello: tutto e subito
Non è un paradosso, ma un nuovo modello sportivo. Lo sport moderno non aspetta più che i campioni maturino col tempo. Li costruisce per esplodere subito, quando la forza fisica è al massimo — attorno ai vent’anni.
Nel tennis, non è una novità assoluta: Borg, Becker, Nadal, Alcaraz sono diventati fenomeni giovanissimi. Ma c’è una differenza: un tempo, soprattutto negli sport di resistenza, l’esperienza e la capacità di gestire lo sforzo prolungavano la carriera. Oggi invece la preparazione scientifica e la specializzazione esasperata spingono gli atleti a dare tutto subito, sfruttando ogni risorsa fisica e mentale nel periodo di picco naturale.
Il risultato è evidente: carriere accelerate, successi precoci, ma anche un rischio crescente di crollo fisico e burnout psicologico.
Quando il sistema tradisce lo spettacolo
La questione va oltre la salute dei singoli. C’è in gioco lo spettacolo stesso. Una finale di tennis che dura ventitré minuti, o un campione del ciclismo che a 26 anni parla di fine carriera, sono immagini che impoveriscono il racconto sportivo.
Lo sport vive di rivalità che si ripetono negli anni, di epiche costruite nel tempo. Se i protagonisti si bruciano troppo presto, lo spettacolo perde continuità. Il corto circuito è chiaro: più si spinge per lo spettacolo immediato, meno se ne garantisce nel lungo periodo.
Il nodo da sciogliere
Il problema è complesso: calendari, sponsor, media, tutto spinge verso il massimo rendimento e la massima esposizione. Ma se il prezzo è quello di consumare atleti molto prima dei trent’anni, forse è tempo di cambiare prospettiva.
La longevità non è un dettaglio secondario: è parte integrante dello spettacolo. Djokovic ha segnato un’era perché è rimasto al vertice per oltre un decennio. Nel ciclismo, corridori come Valverde hanno garantito storie e rivalità che hanno attraversato generazioni.
Perché il talento, per diventare leggenda, deve avere tempo di crescere. Oggi invece il sistema sembra chiedere tutto subito, rischiando di spegnerlo troppo presto.
Un paradosso?
Sinner e Pogacar non sono vittime di un paradosso, ma di un modello che spreme i campioni nel momento del loro massimo potenziale e li consuma prima del tempo. La loro straordinaria forza mentale — quella che li porta a non fermarsi mai — diventa la stessa che li conduce al limite fisico ed emotivo.
Se lo sport non troverà un equilibrio tra spettacolo e sostenibilità, il rischio non è solo bruciare i migliori talenti, ma impoverire lo sport stesso, privandolo delle storie che lo rendono eterno.

































