Midnight in Alberino
Non me ne sono accorto, ma a Malalbergo, il canale Navile si è immesso nel Canale della Botte, che seguiamo per circa tre chilometri fino a Passo Segni, dove lo abbandoniamo per passare sull’argine destro del Reno.
Circa un chilometro dopo, siamo a un bivio: possiamo o proseguire sull’argine o girare a destra e arrivare ad Alberino, nostra prossima tappa, facendo una strada asfaltata.
La strada asfaltata è più lunga, più rischiosa, ma più veloce; l’argine è più breve, più lento e soprattutto è infestato da zanzare voracissime che, nel tempo che si discute il da farsi, riducono la mia schiena a un Ciocorì di bolle pruriginose.

Dato che il traffico, finora, è stato pochino e – tutto sommato – rispettoso, io scelgo la strada e comincio a pedalare più veloce che posso per lasciarmi alle spalle i maledetti nematoceri.
Con i miei compagni di fuga (We few, we happy few) arriviamo al confine fra la provincia di Bologna e di Ferrara, dove c’è il Gran Premio della Montagna: una rampa con un dislivello di ben 33 metri. Mi piazzo terzo, ma va bene così.
Cinque chilometri dopo, alla fine di un lungo rettilineo, ci rendiamo conto del fatto che nessuno di noi sa dove si debba andare. Qualcuno indica un cartello stradale e dice:
– Alberino: dobbiamo andare ad Alberino.
Siamo troppo stanchi per discutere, così lo seguiamo lungo le strade buie e silenziose. È quasi mezzanotte e tutte le finestre sono chiuse; solo qua e là una serranda socchiusa lascia intravvedere il chiarore itterico di una lampada da comodino.

Guidati da un istinto primordiale, simile a quello che spinge le anguille di Comacchio ad attraversare l’Oceano per andare a riprodursi e morire nel Mar dei Sargassi, riusciamo ad arrivare al luogo dell’appuntamento: un bar spartano, ma accogliente, con un piccolo cortile illuminato da festoni di lampadine. Il gestore del locale è gentilissimo e accudente; non si incazza nemmeno quando una delle nostre giovani compagne di avventura stacca la spina delle lampadine per attaccarci il suo carica-batterie.
Mentre aspettiamo che arrivino i coraggiosi che hanno scelto la via del canale mi bevo una radler e faccio il punto dello stato di carica dei miei apparati elettronici. Scopro così che il pacco batterie ha ancora il 75 per cento di carica: notevole se si pensa che, oltre ad aver alimentato il faro per circa tre ore, l’ho utilizzato anche per ricaricare le mie cuffie a conduzione ossea.
Il bar da un Euro e cinquanta
Nel tratto fra Alberino ed Argenta ci godiamo le ultime curve del percorso; poi, è tutto un susseguirsi di rettilinei che mi riportano alla mente il racconto: Il Grande Pozzi, di Stefano Benni:
La mattina dopo ci fu la seconda tappa, detta «il diagonalone»: seimilatrecento chilometri d’autostrada da Lisbona a Leningrado.
Da questo punto in poi, gli argini diventano altissimi, fino a diciassette metri dal piano di campagna, fiancheggiati da alberi che, illuminati dalla luce dei nostri fari, sembrano una scena del film: The Blair Witch Project.
Mi raccontano che questi argini sono stati realizzati dagli anni ‘30 fino agli anni ’50, per buona parte prima dell’avvento delle ruspe meccaniche, .
La terra veniva trasportata a mano da lavoratori a cottimo chiamati: “scarriolanti” che utilizzavano delle carriole auto-costruite, perché siccome non erano pagati a ore, ma a “viaggio”, se la carriola era più piccola del normale, faticavano di meno e guadagnavano di più.

Poco prima delle tre di notte, arriviamo a un bar aperto h24, che i miei compagni di viaggio definiscono affettuosamente: “Il Lurido”. Circonfuso dalla luce prodotta dall’insegna al neon e dalle modanature LED delle auto dei clienti, sembra la versione Punk di un quadro di Edward Hopper. La clientela, inutile dirlo, è di gran classe, come la musica di Radio Montecarlo.
Dentro, costa tutto un euro e cinquanta: che sia una lattina di Coca Cola, un lecca-lecca, un Gatorade o una merendina spugnosa con decorazioni in corindone. Non riesco a vederlo, ma suppongo che il registratore di cassa abbia un solo tasto, enorme e consunto dall’uso, che il gestore pigia con il palmo della mano aperta, come il concorrente di un quiz in TV.

Ci sediamo all’esterno; la notte è tiepida e la nostra meta sempre più vicina. Dietro di noi, tre gentiluomini festeggiano la vittoria del prestigioso riconoscimento: Malandrino dell’Anno, nella categoria: Abigeato e alterazione di prodotti caseari.
Poco più in là, è seduto un uomo che è una via di mezzo fra Thor e Humprey Bogart. Beve da solo e non parla con nessuno da quando Donadoni sbagliò il rigore nella partita contro l’Argentina ai Mondiali del ’90.
Alba a Comacchio
Pedalare per ore al buio e in rettilineo è un’esperienza mistica, simile alla meditazione dei maestri Zen.
Le gambe vanno da sole e le braccia rispondono automaticamente alle sollecitazioni del terreno. La mente, di conseguenza, si libera delle pastoie della materialità e raggiunge uno stato di consapevolezza e di calma interiore, aprendosi all’esperienza del qui e ora.
Capisce così, che – qui e ora – si è ben rotta i coglioni di argini, zanzare, canali e corsi d’acqua in genere. Riprende perciò il comando delle membra e le spinge a intensificare al massimo lo sforzo, per riuscire ad arrivare il prima possibile da qualche parte, non importa dove.
Noi raggiungiamo questo stato di consapevolezza nel tratto che, su Strava, è registrato come: “sterrata sx Reno Madonna del Bosco-Sant’Alberto“; 2.99 Km che abbiamo percorso alla media di 21.7 Km/n (una prestazione che ci colloca a un prestigioso 1.157° posto su 1.940 competitori), con velocità massima di 31.5 chilometri all’ora.
Avrei potuto fare di più, ma sono stato rallentato dall’amico che era davanti a me e che – pavidamente – non ho superato per sfruttarne la scia, non tanto per il vento, ma per le zanzare, che – illuminate dai fari – ci venivano addosso come i traccianti della contraerea sul cielo di Dresda.

Ci fermiamo a fare colazione all’agriturismo Prato Pozzo, nel Parco del Delta del Po, dove ci rifocilliamo con quello che sembra essere un tiramisù di anguilla, ma che è in realtà una sorta di torta di frutta piuttosto buona, poi ripartiamo per l’ultima tappa del nostro viaggio. Il GPS segna 97.5 km., sono le 5:33 e la luce dell’aurora colora di arancio il cielo davanti a noi.
Ed il più grande conquistò nazione dopo nazione.
Quando fu di fronte al mare si sentì un coglione
Con buona pace dello Stranamore di Vecchioni, quando, passate le valli di Comacchio, arriviamo di fronte al mare, non ci sentiamo per nulla coglioni, perché quella che è appena terminata è stata una notte memorabile. I piccoli contrattempi che abbiamo dovuto affrontare nel corso del viaggio sono un prezzo più che onesto per i ricordi che ci porteremo a casa.

Il punto sulla G
Mentre pedalo lungo il Reno in direzione di Ravenna e del treno che mi riporterà a Roma, penso che sono proprio soddisfatto della G line. Quando, prima di partire, ho letto sul sito Brompton, che:
Ogni punto di contatto tra te e la bici è stato progettato pensando al comfort e al controllo.
ho pensato che fosse la solita esagerazione del marketing per invogliare all’acquisto, ma è vero: anche se siamo in giro da dieci ore, non sono stanco e non mi fa male il culo, malgrado la posizione di guida eretta.
Rileggendo a posteriori le “Features” della G line mi accorgo con un certo stupore che è tutto vero: la G dà davvero la sensazione di guida di una bici di dimensioni normali e, grazie alle ruote da 20″ e al manubrio largo, ha superato senza problemi anche i tratti di strada più sconnessi, malgrado avesse una borsa stracarica sull’anteriore.
Anche se, quando è chiusa, non è maneggevole come le sue sorelle “minori”, la G line ha delle doti ciclistiche che bilanciano ampiamente questa mancanza. Fare un paragone fra i due modelli, a mio avviso, ha poco senso, perché sono due mezzi differenti, con “destinazioni d’uso“ diverse.
Come al solito, tutto dipende da cosa ci si deve fare.

Come cronista (non come pedalatore), ho un solo rimpianto: che la nostra transumanza sia avvenuta lungo un percorso privo di qualsivoglia variazione altimetrica, che non mi ha dato modo di provare né l’efficienza dei freni a disco né quella del cambio a otto rapporti della G line.
Sono certo, d’altro canto, che non mancherà occasione di provare la “G” su altri tipi di percorso, perché – a voi posso dirlo – quella che ho riconsegnato a Fabrizio era, in realtà, una Graziella del 1974, a cui ho montato due freni a disco comprati su AliExpress.
La Brompton G line, me la sono tenuta io.
Scheda tecnica
| Apparecchio | Modello |
|---|---|
| Bicicletta | Brompton “G line“ 8 marce |
| Ciclo-computer | Bryton Rider 750 SE |
| Telecamera | GoPro 9 con Media Mod |
| Microfoni | Hollyland LArk M1. |
| Faro anteriore | Magic Shine MJ-902S. |
| Pacco batterie | Magic Shine MJ-6116 |
La prima parte qui
“Moon River”: in notturna da Bologna a Ravenna su una Brompton G-Line – 1


































