di Maurizio Coccia
Rimarrà sicuramente negli annali la vittoria di Tom Pidcock nel “tappone” alpino del Tour. Impresa d’altri tempi quella dell’inglese, con un’azione che parte da lontano, raggiunge testardamente una fuga già in atto e poi rimane solo al comando, resistendo al ritorno dei big e andando a trionfare a braccia alzate sul mitico traguardo dell’Alpe d’Huez.
Ma, a parte l’impresa sportiva, il gesto di Pidcock dice e lascia tantissimo anche dal punto di vista tecnico. E questo per un doppio ordine di ragioni: tecniche e poi atletiche.
Quelle tecniche sono probabilmente le più evidenti, sono quelle che hanno lasciato a bocca aperta anche chi di ciclismo è meno esperto: nella sua arrembante discesa dal Col du Galibier Pidcock ha fatto vedere un numero strepitoso, con velocità stratosferiche e una capacità magistrale di condurre in curva la sua Pinarello.
Quelle atletiche: in poco più di cinque mesi (165 giorni per l’esattezza) Pidcock è stato capace di primeggiare in tre discipline ciclistiche tutte diverse, tutte ad altissimo livello: il 30 gennaio ha dominato il Campionato del Mondo di Ciclocross disputato in Arkansas, poi il 15 maggio fa sua (in volata) la prova di Coppa del Mondo mtb cross country di Nove Mesto, e appunto il 14 luglio trionfa, in fuga, al tappone alpino della grande boucle. Tre prove tutte diverse dal punto di vista della durata e della distribuzione dello sforzo, dal punto di vista del mezzo utilizzato e del terreno su cui mettere le ruote.
Sì, lo sappiamo: il ciclismo dei nostri giorni ha messo in dubbio il “dogma” della specializzazione atletica a tutti i costi, della programmazione asettica e a tavolino, quella inaugurata con Armstrong e mai discussa praticamente fino all’altro ieri. A rompere il tabù sono stati campioni come Van der Poel, Pogačar e soprattutto Van Aert, riusciti a vincere sul terreno delle grandi classiche e delle grandi corse a tappe, capaci di vincere tappe in salita, in volata o a cronometro e di vincere anche in discipline diverse, in particolare ciclocross e poi strada.
Ciclocross e poi strada, appunto, esattamente come ha fatto Pidcock, con la differenza che in questo caso, tra una vittoria e l’altra ci sono solo 165 giorni, e che in mezzo a questi c’è anche un successo a “ruote grasse”, ovvero con la mtb!
Fenomeni che ne nascono pochi in un secolo? Oppure semplicemente i tempi che – per fortuna, aggiungiamo noi – stanno cambiando?
«Il fatto è che non siamo ancora abituati a questa situazione. Fino a che non è arrivato Van der Poel tutto questo non si credeva possibile. Eravamo abituati all’era Armstrong. E poi ti arrivano questi, che stravolgono le nostre basi di pensiero».
A parlare è un esperto, un tecnico, uno che unisce la sua esperienza da ex professionista alla sua attuale competenza di allenatore e biomeccanico. Alessandro Proni ha corso con la Quick Step, solo per citare la più famosa, e smessi i panni di corridore qualche anno fa ha aperto Proni Lab, centro di biomeccanica e allenamento per ciclisti a Lariano, a sud di Roma. Nei sette anni in cui è stato professionista lui, 2007-2013, “fenomeni” che vincevano dappertutto come Pidcock non si sapeva neanche cosa fossero….
La vittoria nel Mondiale di ciclocross, quella nella mtb XC e quella all’Alpe d’Huez. Parlando da allenatore, Alessandro, quale tra queste vittorie di Pidcock ti ha stupito di più?
«In realtà tutte e tre assieme, proprio perché ancora non ci siamo ancora abituati a questa nuova situazione che stiamo vivendo da pochi anni. Dopo aver chiuso la carriera da corridore il ciclismo professionistico non lo seguivo quasi più, perché finivo per annoiarmi. Ora mi sto riappassionando, e se è così è anche grazie a personaggi come questi, a Van der Poel, a Van Aert e da ultimo a Pidcock. Con gente così come fai a non appassionarti di ciclismo? Come fai a non appassionarti ad un Tour bellissimo come quello di quest’anno, che non si rivedeva da anni?».
Hai detto che questi corridori stravolgono le nostre basi di pensiero. Ma allora era solo un modo di vedere le cose? Allora cose del genere sono possibili atleticamente?
«Se è stato fatto è possibile. Ed è possibile anche nel caso di Pidcock, pur se le caratteristiche degli sforzi sono diverse».
Appunto, dal punto di vista delle qualità atletiche richieste, quale delle tre specialità è atleticamente più lontana dall’altra?
«Sai, il cuore, la base solida da cui parte uno come Pidcok, è essere forte, fortissimo nello sforzo di un’ora, che fondamentalmente è quello che si fa nel ciclocross ma anche della mtb cross country. Ma questo tipo di sforzo tutti i biker o i ciclocrossisti dei nostri giorni lo allenano anche con la bici da strada, con cui si fa anche il fondo, e che normalmente è lo strumento cardine tra le varie discipline, lo strumento migliore per eseguire i cosiddetti “lavori”. Poi, si può partire da quella base per fare l’adattamento, che nel caso di Pidcock lo avrà sicuramente portato a una condizione adatta a sostenere le quattro o anche più ore di sforzo di una tappa di montagna di un grande giro».
E questo adattamento si può tecnicamente costruire in un periodo così breve?
«Per lui evidentemente è stato possibile, perché è chiaro che in questi casi parliamo di fenomeni atletici, di fisici geneticamente dotati per certi tipi di sforzo. Poi, volendo passare nel dettaglio, io non sono l’allenatore di Pidcock e non posso sapere cosa ha fatto; ma sicuramente dopo il mondiale di ciclocross si sarà risposato, poi, con la grande base anaerobica che aveva, ha ricominciato a costruire il fondo, la resistenza. Lui non è che sia sceso dai campi di ciclocross e il giorno dopo ha vinto sull’Alpe d’Huez al Tour. Ha vinto al Tour dopo un lungo periodo di preparazione fatto principalmente di bici da corsa, dove avrà cominciato con un recupero attivo fatto di distanze lunghe in bici da strada e poi sicuramente avrà iniziato a inserire lavori specifici. E tra questi, sicuramente, anche sedute in mountain bike, che gli saranno servite per continuare a richiamare determinate qualità e garantirsi quel tipo di condizione che in corsa significa polivalenza, e poi magari gli saranno servite anche per vincere, strada facendo, una prova di Coppa del Mondo di mtb cross country… ».
La famosa “multidisciplina”, insomma?
«Appunto. È anche un discorso di scuola. La sua (di Pidcock, ndr) è la scuola anglosassone, è proprio quella che meglio insegna che gareggiare in più specialità non può che essere benefico a livello di condizione generale. Nella multidisciplina dello stradista c’è spesso la pista, e questa sappiamo che fa benissimo. Ma proprio Pidcock insegna che nella multidisciplina dello stradista dovrebbe esserci anche la mountain bike, proprio quella che tanti dei nostri stradisti italiani scansano, anzi, in certi casi disdegnano, forse per un malinteso senso di “purismo” che ha storicamente avuto il ciclismo su strada da noi….».
Cosa ci si può aspettare in futuro da un fenomeno come Pidcock? Magari potrà vincere anche una corsa a tappe?
«Posto che da uno così ci si può aspettare di tutto, credo che in questo momento sia proprio lui il primo a non sapere dove possa, o voglia, arrivare. Ma sono curioso di vedere cosa gli succederà adesso, dopo questa forte, ulteriore, presa di coscienza che gli ha dato la vittoria all’Alpe d’Huez. Di sicuro, se vorrà vincere un grande Giro si dovrà specializzare. Dipende dai suoi obiettivi, appunto, nel senso, che se davvero vuole vincere una corsa a tappe allora il percorso di preparazione dovrà per forza essere un po’ diverso. Così come se vorrà vincere una Coppa del Mondo di XC oppure il circuito di Coppa di CX allo stesso modo il suo percorso allenante dovrà essere diverso».
Nello specifico a un corridore professionista quanto tempo occorre per costruire una determinata qualità atletica? E quanto per perderla se non la allena?
«Dipende dalla persona. Per uno come Pidcok la realtà dimostra che serve poco. E questo se non altro perché è giovanissimo (classe luglio 1999, ndr), e quando si è giovani i tempi di recupero sono più corti e i tempi di ricostruzione delle varie espressioni della condizione più veloci. Non credo che quando Pidcok avrà trenta anni riuscirà a mantenere la polivalenza che ha fatto vedere quest’anno… ».
La polivalenza in fondo significa si esprime anche dal punto di vista biomeccanico, ovvero della coordinazione e dello strumento tecnico: esattamente come per la costruzione della condizione, Alessandro, come si fa a passare dalla posizione della bici da ciclocross a quella della mtb e poi a quella su strada ed essere comunque così competitivi ovunque? Come non avere problemi?
«Qui c’è ancora un discorso di giovane età, che predispone meglio agli adattamenti muscolari e articolari, ma qui sicuramente c’è anche un discorso di tecnici che lo seguono, che saranno senza dubbio supercompetenti. In particolare è la mtb ad avere un assetto molto diverso dalla bici da strada e da ciclocross. Ma ripeto, se sei giovane, se sei seguito da tecnici competenti, sei hai grande adattabilità fisica, e, aggiungo, se non hai mai avuto grossi infortuni, passare da una bici all’altra è assolutamente possibile».
La tecnica del mezzo ci introduce alla tecnica di guida, Alessandro. Come giudichi, questa volta anche da ex corridore, quel che Pidcock ha fato in discesa dal Col du Galibier?
«In quel momento ero a lavorare al computer e devo dire che non credevo ai miei occhi e ho lasciato subito la tastiera quando ho intravisto come stesse scendendo… Anche in questo caso, comunque, sono di quelli che pensa che la multidisciplina non possa non averlo aiutato a costruire quella sua attitudine, quella percezione e quel suo feeling di condurre il mezzo in quel modo. Guidare sui sassi, sul fango o sulla neve una bici da fuoristrada non può non allenare anche quelle essenziali capacità propriocettive che poi ti serviranno anche quando passi sull’asfalto e guidi una bici in curva a settanta all’ora».
E questo anche se la posizione della sua testa in curva non era esattamente “da manuale”? hai visto come protendeva in modo pronunciato la testa verso l’esterno della curva? Ma i manuali non dicono che si debba fare così?….
«Sì, è vero. Credo che la fisica, la manualistica o la teoria spesso dicono o spiegano determinate cose, ma non è che sia sempre necessariamente ed esattamente così. L’uomo in fondo è fatto per infrangere le regole. O quanto meno per infrangerle in parte.
È più questione di tecnica o di “manico”?
«Entrambi, senza dubbio».
C’è chi dice che l’attitudine alla discesa sia anche una questione di proporzione tra segmenti corporei, nel senso che è più portato chi ha gambe corte in relazione al tronco
«Ancora una volta, solo teorie, teorie che possono valere fino a un certo punto. Più ti alleni, più diventi bravo, a prescindere dalla statura fisica che hai».
16 lug 2022 – Riproduzione riservata – Cyclinside