11 ott 2017 – Iniziando a sistemare l’archivio del 2017 di Cyclinside mi è tornato agli occhi un articolo che avevo conservato qualche mese fa. Un’intervista a Liz Nicholl, il “capo” di UK Sport. Quella che la giornalista che ha realizzato l’articolo (lo trovate qui) ha ribattezzato la “Lady di ferro” dello sport inglese. Avevo messo da parte l’articolo perché mi erano venuti in mente dei commenti ma poi, ragionandoci, non vedevo chiaramente una via che sentivo giusta e una sbagliata. C’erano idee contrastanti.
Quali sono quelle giuste?
La signora Nicholl ha dalla sua i risultati: la logica di investire negli sport che rendono è inconfutabile. Diventa stimolo a operare bene e il miglior riscontro di un buon lavoro sono i risultati sportivi: non serve a questo lo sport?
Certo, lavorare bene nello sporto significa promuoverlo in maniera corretta e dando la possibilità a chi ha un talento di poterlo prima individuare e poi esprimere (penso sempre che chissà quanti campioni di ciclismo mancati ci sono nelle fila di troppe squadre di calcio). Questo è positivo, come lo stimolare una buona organizzazione con persone competenti di un determinato settore. I risultati, a questo punto, saranno la conseguenza e tutto fa pensare che saranno positivi.
L’approccio della signora Nicholl, però, è al contrario. Forse è solo più diretto, o forse no. Fatto sta che una dichiarazione come “Investiamo sul futuro e dove si vince” è un’affermazione delicata e pericolosa. Tra una parola e l’altra si possono annidare idee distorte e una ricerca di scorciatoie pericolose come abbiamo già visto accadere. Il fine dichiarato da questa frase (e non è decontestualizzata se avete letto l’intervista) è il risultato, non il metodo. E nel ciclismo, ahinoi, il metodo è tutt’altro che scontato da lasciarlo sottointeso. Sarebbe stato meglio specificare. O forse no.
In piccolo e in grande accade così dappertutto. Anche nei centri di educazione allo sport da noi. Squadre di ragazzine e ragazzini impegnati in allenamenti faticosissimi e complicati da coniugare con gli impegni scolastici (e una vita non solo in funzione dello sport) perché chi gestisce la struttura ha i risultati come unico modo per attrarre gli sponsor. E questo non va bene in un’età in cui lo sport deve essere una parte non preponderante col resto.
Qualcuno ha portato, in proposito, anche l’esempio di risultati importanti ottenuti nelle categorie giovanili che non hanno seguito allo stesso livello in quelle successive (o almeno, non con la percentuale che ci si aspetterebbe). È da un po’ che questo avviene in Italia e deve far pensare, perché segnali di giovani atleti, nel ciclismo in questo caso, che si allenano troppo e poi scoppiano di testa, quando è il momento di fare davvero il salto di qualità, arrivano da più livelli e si vede nei risultati pratici: abbiamo atleti vincenti da giovani che poi si perdono o scompaiono completamente nelle categorie superiori.
Frasi come “Non siamo un ente di beneficenza” fanno venire un po’ i brividi in questo senso e se pensiamo alla specializzazione britannica dei team non è che ci sia molto da sorridere. Al di là degli investimenti importanti, è proprio l’atteggiamento lontano da un certo modo di pensare e di promozione dello sport che fa un po’ paura.
La stessa Nicholl afferma che “se i risultati non sono in linea con le aspettative, escono dal programma. Noi non dobbiamo essere politicamente corretti o fare buone azioni, ma costruire una leadership sportiva” ed è una dichiarazione di intenti. Nessun equivoco insomma. Verrebbe da pensare che se in Gran Bretagna dovesse arrivare una generazione di atleti poco talentuosi nel ciclismo questo sport sparirebbe, semplicemente, dalla nazione, con buona pace di possibili campioni futuri. Pensiero drastico ovviamente, ma l’approccio è questo e non mi piace molto.
Siamo sicuri che un ente di promozione dello sport debba ragionare in questo modo? Vero che “l’importante è partecipare” rimane nel libro del bell’apparire, ma se un ente sportivo vuole avvicinare i giovani allo sport con l’obiettivo esclusivo del risultato li carica di qualcosa che con il concetto di sport non c’entra niente, si mischiano livelli diversi e si va, potenzialmente, verso il disastro. Anche se ora sembra funzionare e forse è questa la trappola maggiore.
Guido P. Rubino