I gravellisti la chiamano “la tre-e-sessanta”, 360 chilometri per la versione cui punta chi vuole partecipare alla sfida più impegnativa a Girona in occasione di The Traka, una delle manifestazioni più seguite a livello mondiale e probabilmente l’evento con maggiore richiamo in Europa.
I numeri parlano chiaro: più di 2.500 partecipanti, ma anche percorsi da 50, 100 e 200 chilometri, più una versione “Adventure” da 560 chilometri da fare in due giorni.
Come detto la corsa vera è quella da 360 chilometri, con 3.700 metri di dislivello per una gara che dura almeno tredici ore, per i più bravi.
L’entroterra della Costa Brava è lo scenario dove si pedala: tra il Massis de l’Albera, il Cap de Creus, il Parco Naturale dell’Aiguamolls del Empordà, quello del Montgrí e Les Gavarres. Ma lo scempio dei muscoli resta. È gara da eroi e da leggenda.
Il protagonista
Una gara che parla italiano. Tre edizioni disputate e tre vittorie di Mattia De Marchi, atleta del Team Enough, con un passato da pro su strada prima di convertirsi alla filosofia off-road. Mattia detiene il record del tempo (12h55’42”, stabilito nella scorsa edizione. Unico atleta, al momento a scendere sotto le 13 ore) e si appresta alla quarta galoppata con determinazione ma anche con umiltà.
L’intervista
Alla domanda: sei l’uomo da battere, serafico risponde: «Io parto per dare il massimo, però sono consapevole che questa serie di vittorie non può continuare all’infinito- ci racconta Mattia – e quest’anno, per di più, il percorso sembra un po’ più semplice rispetto agli anni passati e quindi la gara potrebbe essere molto più aperta. Potremmo essere in tanti là davanti a giocarcela. Alla fine, ogni gara ha la sua storia».
Che tattica pensi di adottare per, diciamo, “fare bene” di nuovo?
«Nelle gare gravel la tattica è meno importante rispetto alle prove su strada. Ci sono, però, tante piccole accortezze da pianificare, poiché si tratta pur sempre di dodici ore di sella: i check point, dove prendere acqua, dove lasciare giù lo zaino, come alimentarsi eccetera. In realtà, la tattica è molto semplice: se ne hai di più, vai; se ne hai di meno, ti stacchi.
«Perché non ci sono molti margini, dopo tante ore in bici. Bisogna conoscere il proprio corpo ed essere consapevoli che nell’arco della giornata non si potrà stare comunque bene per l’intera gara, ma sarà un susseguirsi di buone sensazioni e momenti di fatica. In queste gare, i down e gli up sono continui».
Quindi è una questione più di testa che di gambe?
«Sì e no: la testa aiuta, ma alla fine bisogna avere le gambe. La testa serve nella seconda parte della gara, dopo diverse ore di sella. Questo perché – anche se durante la gara ci si alimenta – è comunque impossibile reintrodurre tutto ciò che si consuma e il corpo alla lunga va in deficit. È qui che interviene la testa, dopo 8/10 ore di gara».
In quanti giorni si recupera uno sforzo così?
«Dipende dalla condizione in cui si arriva al traguardo. Ci si può sentire stanchi, ma non distrutti. L’anno scorso, ad esempio, stavo bene: ho fatto la 360 e, il giorno dopo, anche la 100, per divertimento. Oppure, si può arrivare totalmente svuotati di energia e il giorno dopo non si ha nemmeno la forza di salire in bici. Stremati. Negli anni, ho notato che più gare si fanno, più il fisico impara a dare il massimo senza distruggersi. È veramente questione di abitudine, oltre che di allenamento. Le prime volte ero spossato per diversi giorni e il momento peggiore non erano le 24 ore successive alla prova, come si potrebbe credere. Ma quando calava la tensione, dopo 2/3 giorni: in quel momento, arriva la botta di stanchezza».
In questo tipo di prove, spesso si rimane da soli. Come si pedala con la solitudine come compagna, quando magari sei lì in mezzo al nulla e hai davanti ancora 150/170 km da percorrere in totale isolamento?
«Nelle gare di uno o due giorni, io, solo con me stesso, sto benissimo, mi sento libero. Oltre i due giorni, invece, la solitudine comincia a pesarmi: è una questione di carattere, fa parte di te. L’anno scorso, ho pedalato in solitudine per 200 chilometri e non mi è pesato affatto; anzi, in realtà, volevo proprio star da solo! In una gara precedente ero davanti e ho forato. Per cui volevo avere un buon margine per intervenire con calma in caso di piccoli incidenti meccanici».
Hai parlato di foratura: se buchi e il lattice non riesce a sigillare la perdita, che si fa?
«Si deve partire con tutto il necessario per gli imprevisti più comuni: vermicelli, una camera d’aria, le minipompa o le bombolette… La regola è essere autosufficienti, non si ha l’ammiraglia di appoggio. Stesso discorso per l’alimentazione. Il percorso della 360 prevede quattro Feed Zone e sta all’atleta sapersi gestire con acqua e cibo per arrivare al rifornimento successivo. Per chi arriva dal professionismo su strada, è un po’ una novità».
Tu utilizzi il gruppo Ekar di Campagnolo: durante la 360, quali sono i componenti che “soffrono” di più: la trasmissione, il cambio, le pinze, i dischi…
«L’impianto frenante non viene particolarmente stressato, dal momento che le discese non sono né estreme né lunghe. Cambio e pignoni, invece, dipendono dalle condizioni atmosferiche, perché l’eventuale brutto tempo è sempre una criticità per la trasmissione. Di qualsiasi marca sia. Un anno abbiamo trovato un po’ di pioggia; per fortuna la zona non è molto fangosa, ma comunque durante la gara non si ha la possibilità di pulire la bici. E la mota, man mano che si accumula, rende la pedalata meno fluida. Ovviamente, è scontato che si parta con la bicicletta pulita, oliata e con il cambio registrato alla perfezione. E in questo, l’Ekar non ha mai tradito».
Che cassetta monti?
«L’anno scorso avevo scelto la 10/44 abbinata alla corona da 44. Sapevo che ci sarebbe stato un piccolo margine di rischio, perché le salite finali, dopo 300 chilometri, pur sembrando facili possono diventare micidiali. Quest’anno confermo la stessa scelta: preferisco avere una corona più grande davanti e sfruttare l’“effetto volano” che può avere, anche perché le velocità si sono alzate molto durante le ultime stagioni. Uso questo set-up in quasi tutte le gare, perché se hai gambe il rapporto 1:1 è più che sufficiente».
Cosa apprezzi maggiormente dell’Ekar?
«Senza dubbio, le 13 velocità. E servono tutte! Avere un pignone in più è un grande vantaggio: più il percorso è lungo e variegato, più apprezzi una scala regolare con salti poco accentuati. Con le cassette di oggi, che vanno dal 10 al 44, avere rapporti vicini aiuta a mantenere la cadenza e la scioltezza della pedalata. Invece, con dodici velocità, si perde in progressività o magari ci si può trovare in situazioni in cui non si ha il rapporto giusto. Sono quei piccoli accorgimenti che possono creare grandi differenze dopo i duecento chilometri».
Per concludere: la The Traka, è davvero la corsa più bella del calendario? Per percorso, panorami e, soprattutto, per lo spirito di gruppo che si crea…
«Non riesco a trovare qualcosa in più rispetto a tanti altri eventi belli. Però alla The Traka tutto è costruito per far star bene i partecipanti. Gli stessi organizzatori sono sempre ben disposti nei riguardi di tutti, dal miglior professionista all’ultimo appassionato, in un clima dove non ci sono differenze, non ci sono muri. E tutte le attività che vengono organizzate attorno all’evento aiutano a stare in compagnia. Inoltre, la città di Girona si presta perfettamente a questo tipo di eventi, l’atmosfera che si crea è pazzesca. È un insieme di cose che, secondo me, rende la The Traka la gara che consiglierei a tutti. All’amatore, all’appassionato, a chi si avvicina al gravel direi subito: «Almeno una volta devi venire a farla».
con la collaborazione di Francesco Ripamonti che ha realizzato l’intervista