Sapete cosa contraddistingue noi tifosi di ciclismo? Che possiamo stare tre ore a guardare una tappa di pianura del Tour de France in cui apparentemente non succede niente dall’inizio fino agli ultimi 300 metri.
Apparentemente.
Invece siamo lì che guardiamo e commentiamo come si dispongono le squadre, se tengono la corsa chiusa alzando il ritmo della gara, se mandano qualche gregario in fuga per far lavorare gli altri; se il campione atteso da tutti se ne sta protetto nella pancia del gruppo o se mette il naso fuori. Andiamo avanti ore così, noi e i poveri telecronisti. E ci piace molto.
Però.
Però questo vale per noi. Per noi che sappiamo che molto di quel poco che succede in quegli insulsi 200 chilometri di pianura determinerà poi il risultato finale della tappa.
Per il grosso del pubblico quei 200 chilometri sono una perdita di tempo che al più concilia il sonno sul divano nei pomeriggi di luglio in attesa del triangolo dell’ultimo chilometro.
Sarà forse anche per questo che tutto, nel mondo del ciclismo, sta convergendo per fare in modo che le corse si risolvano sempre e solo negli ultimi chilometri.
Io la chiamo la sindrome del Muro di Huy, dal nome della salita finale con cui tradizionalmente si conclude la Freccia Vallone: da anni in quella corsa nessuno prova a tentare un’azione per chilometri e chilometri, tutto si gioca nelle ultime centinaia di metri sulle pendenze impossibili del muro di Huy. Ma questa cosa succede ormai in quasi tutte le corse.
Tre fattori determinano oggi corse chiuse e arrivi “spettacolari”.
I percorsi: nel tentativo di rendere più “spettacolare” la corsa, gli organizzatori tendono ad inserire una salita nei chilometri finali, dove i campioni battaglieranno faccia a faccia per la vittoria. È successo all’ultima Liegi Bastogne Liegi, dove è stata aggiunta nel finale la salita della Rue Naniot. Il risultato è che nulla è successo sulla Redoute, nulla è successo sul Saint Nicolas, nulla sulla Roche aux Faucons, con i ciclisti tutti coperti in attesa dell’ultima, tostissima, salita. Stessa cosa per l’ultimo Giro della Fiandre, che ha meritatamente proiettato Sagan nell’olimpo del ciclismo, ma in cui c’è stato, in 250 chilometri, *uno* scatto.
Potremmo continuare a lungo coi tapponi di montagna dei grandi giri.
Qui la situazione è perfino peggiore, da quando gli organizzatori, sempre per lo spettacolo, hanno iniziato a fare a gara a chi trova nel proprio territorio la mulattiera più ripida da piazzare nel finale, col risultato che – indovinate un po’ – i corridori stanno coperti fino all’ultima salita, nessuno prova non dico un’azione da lontano (quanto ci manca Pantani!) ma neanche a mettere il naso fuori per vedere l’effetto che fa sugli avversari. Tutti risparmiano ogni energia per quei micidiali 300 metri finali al 20% dove quelli forti vanno a otto all’ora e quelli scarsi salgono a piedi, a sette. Questa roba è spettacolare?
L’altro fattore: squadre forti, numerose, in grado facilmente di tenere cucita la corsa. Ogni tentativo di fuga viene con breve sforzo annichilito dagli squadroni. Basterebbe ridurre il numero dei corridori per squadra (5, massimo 6) per disinnescare l’inevitabilità del ricongiungimento e dare qualche speranza al carneade di turno o, meglio ancora, invogliare qualche capitano ad attaccare senza la certezza di essere ripreso.
Infine, la tecnologia. Oggi i corridori hanno a disposizione un’infinità di strumenti per decidere cosa fare in corsa: cardiofrequenzimetro e misuratori di potenza per sapere se stanno andando fuori giri, radioline collegate con l’ammiraglia che dice loro non solo i distacchi, ma ordina se aumentare il ritmo, diminuirlo, mettersi in testa a tirare perché nelle retrovie c’è il principale avversario in difficoltà.
Nessun campione è mai solo con se stesso, nessun capitano ha l’autonomia di decidere se rischiare un attacco o attendere un momento più opportuno. In ogni momento guardano i numeri del cardio, ascoltano l’indicazione del direttore sportivo dall’ammiraglia e agiscono di conseguenza. Nessun margine di incertezza è ormai ammesso.
La conoscenza del proprio corpo e la capacità di sentire la corsa da parte dei corridori rischiano ormai di essere sostituite da qualcuno e da qualcosa che lo fa al posto loro. Il risultato è che neanche i campioni sanno più correre e quelli che lo sanno fare non hanno un reale vantaggio dalla loro abilità di leggere la corsa, perché i corridori più sprovveduti sono facilmente guidati dall’ammiraglia. Così per esempio non si vedono quasi più quelle crisi mostruose che spesso colpivano i corridori quando esageravano o si intestardivano ad inseguire gli scatti.
In un tappone dolomitico per esempio, sapere con certezza se puoi permetterti di seguire subito un avversario che ti scatta in faccia o se invece sia meglio aspettare e continuare a salire senza fare un fuorigiri può fare la differenza tra perdere dieci secondi e beccarsi una cotta micidiale. E per queste cose un cardiofrequenzimetro, powermeter e radioline sono determinanti.
Il rischio è che il ciclismo diventi come la Formula 1, dove la tecnologia ha ormai soppiantato il talento e le corse si decidono ai box, e per come si stanno mettendo le cose, fra non molto potremmo anche mettere i corridori sui rulli per sei ore e poi fargli fare una salita alla fine in cui scattano a ripetizione.
Pensa che spettacolo.
Claudio Borgognoni
Salve Sig. Claudio Borgognoni.
Lei è un ciclista?
Salve, signor Salvatore,
no, assolutamente. Sono solo un tifoso e un ciclista amatore.
come ha ragione signor Claudio!
la tattica esasperata e la tecnologia hanno profondamente cambiato le gare ma anche i soldi e quindi la scarsa propensione al rischio (arrivare anche ventesimo da punti nel world tour e quindi nessuno rischia più di saltare).
Aggiungo però che anche la lotta al doping ha fatto la sua parte, forse certe azioni spettacolari la maggior parte dei corridori semplicemente oggi non possono più permettersele e questo è un bene mi pare.
Credo che i percorsi invece centrino fino ad un certo punto, come disse uno che ci capiva: sono i corridori a fare la corsa non la strada.
Detto questo però noi appassionati continuiamo ad amare questo sport e lo sa perchè? Perchè è la fatica che fa la differenza tra il ciclismo e molti altri sport, domenica ero a bordo strada sulla cote de Rue de Naniot a Liegi e ho visto in faccia quei pochi ragazzi superstiti, benchè non ci siano stati scatti o azioni spettacolari e benchè sembrassero perlopiù un branco di amatori di quelli scarsi (visto il passo con cui salivano), tutti li abbiamo applauditi dal primo all’ultimo perchè i loro volti trasmettevano tutta la fatica che avevano fatto e stavano facendo: ecco io credo che questa magia i cardiofrequenzimetri, i power meter, le ammiraglie e tutto il resto non ce la toglieranno mai e io credo che questa sia l’anima del ciclismo e il motivo per cui tanta gente lo ama nonostante tutto.
Gentile Giacomo, parole sante, le sue. E anche molto belle!