Via Mazzini è come un utero.
Chiunque abbia concluso un’Eroica a Montalcino ve lo potrà confermare. La si imbocca da piazza Cavour, dove si è arrivati al termine del discesone di via Roma e la si percorre, in leggera salita, stretti fra le pareti brune dei palazzi. Come per il movimento del feto nel grembo materno, non è un moto intenzionale, ma una sorta di riflesso ancestrale indipendente dalla volontà del singolo o dalle sue forze.
A mano a mano che ci si avvicina all’incrocio con Costa Spagni, quando la strada curva dolcemente a sinistra, si cominciano a sentire i rumori che provengono dalla linea del traguardo e si intravedono i visi delle persone che accoglieranno il nostro arrivo. Ancora qualche giro di catena e finalmente è finita: si (ri)nasce nella luce di piazza del Popolo, emendati dai proprii peccati grazie al piacere della fatica e al gusto dell’impresa. L’unica differenza, rispetto al parto, è che a L’Eroica, invece di uno schiaffo sul culo, ti dànno una medaglia.
Non vado oltre, in questa accattivante metafora ginecologica, perché io e Giovanni siamo seduti a bere proprio di fianco al varco di uscita del neo-nato e preferisco non pensare a quale valenza simbolica potremmo assumere. Siamo comunque piuttosto allegri, grazie anche ai due bicchieri di Rosso che abbiamo tracannato.
«Chi ti ricorda?» gli dico, indicando una ragazza seduta sulla soglia di un portoncino dall’altra parte della strada.
È una delle giovani giornaliste di Radio Immaginaria e sta scrivendo qualcosa sul suo telefono.
Giovanni si volta a guardarla ed esclama:
«Montanelli!»
Anfatti. A parte qualche lieve differenza nell’abbigliamento, nello strumento di scrittura e nella dotazione di cromosomi X, la ragazza somiglia – per postura, espressione e cappottone nero – alla nota immagine di Indro Montanelli che batte a macchina il suo articolo, seduto davanti a un portone.
«Andiamogli a fare una foto» dico, incurante del genere del pronome combinato, ma proprio in quel momento, sembra che un brivido collettivo scuota tutti i presenti. Dalla linea dell’arrivo fanno dei cenni a Franco Rossi, Presidente di Eroica Italia, che è seduto con alcuni amici al tavolino di fianco al nostro; lui si alza e, a passo svelto, raggiunge i suoi collaboratori sotto allo striscione dell’arrivo.
«Arriva» mi dice Giovanni.
«Andiamo» rispondo io, finendo in un sorso il mio vino.
Il brusio della folla si è attutito e anche il DJ Niki, nella sua FIAT 500, abbassa il volume della musica con cui ci sta intrattenendo da questa mattina; adesso è così basso che probabilmente a Siena fanno fatica a sentirlo. Guardiamo tutti nella stessa direzione, là dove l’estuario di via Mazzini sfocia nel mare della piazza e finalmente arriva: la sua maglia è bianca e nera, il suo numero di gara è 234, il suo nome è Andreina. Si ferma pochi metri dopo aver tagliato il traguardo e scende dalla bicicletta, visibilmente emozionata perché tutti gli occhi, ora, sono puntati su di lei. Due bambine le vanno incontro e la abbracciano, mentre una donna, in tenuta giallo/nera prende in consegna la sua bicicletta.
«Brava Andreina! Bravaaa!» grida qualcuno alle mie spalle, forse Giovanni, che sta riprendendo la scena con la sua GoPro; io ho lasciato la mia in auto e devo arrangiarmi con il telefono. Andreina, sorridendo, alza le braccia in alto, a testimoniare la sua gioia per aver portato a termine la titanica impresa, ma quando le infilano al collo la medaglia di partecipazione, deve asciugarsi due lacrime con le mani guantate di nero. Continua a piangere e a ridere mentre estrae dalla tasca posteriore della maglia il suo road-book e se lo fa timbrare.
«Complimenti ad Andreina, dalla Francia» dice lo speaker; le grida della folla non permettono di sentire il resto della frase.
Lei si concede per un’ultima volta agli obiettivi dei presenti, poi si volta e si avvia maestosamente verso il suo albergo, seguita dalle due bambine (le nipoti), dalla donna in tenuta da Ape Maia (la cognata) e da un uomo che indossa una maglia del Giro d’Italia d’Epoca (il fratello). Mentre Giovanni e io torniamo al nostro tavolo, una signora sobriamente ingioiellata, seduta col marito sotto gli ombrelloni dell’Osteria del Brunello, ci chiede:
«È lei, che ha vinto?»
Io e Battistuzzi la guardiamo severi.
«No» dico io.
«È l’ultima» dice Giovanni.