Quando si parla di rivoluzioni che hanno inciso sulla bicicletta moderna, così come la conosciamo noi, si stabiliscono dei passaggi fondamentali: i pedali a sgancio rapido, i comandi al manubrio, poi l’evoluzione dei materiali.
Prima ancora lo erano stati i sistemi di cambio che non richiedevano più di scendere dalla bicicletta e quelli, sempre più evoluti, che permettevano di non smettere di pedalare.
C’è un passaggio, però, di cui pochi tengono conto e che vale la pena rivalutare alla luce del punto di arrivo attuale e anche delle polemiche su un’evoluzione che a molti sembra esagerata, una spinta verso una tecnologia che ha l’unico scopo di smuovere il mercato costringendo gli utenti a rinnovi sempre più serrati e con cose ritenute inutili (salvo ripensarci una volta provate).
Una sorpresa alla fine del 1996
Alla fine del 1996, era ottobre, oppure novembre, poco importa in questa sede, fummo invitati a vedere una novità che veniva presentata come assoluta da un’azienda taiwanese non troppo conosciuta: Giant presentava la sua nuova teoria sulla concezione dei telai per bicicletta da corsa.
Erano gli anni in cui si iniziava a parlare di alluminio in maniera importante nel ciclismo. L’acciaio era considerato comunque il materiale ottimale per una bicicletta da corsa professionale, ma si guardava con curiosità a questo materiale che già dava risultati interessanti. Era leggero e molto rigido, anche se i tubi di grande sezione facevano quasi sorridere. Sembravano una storpiatura.
Ma non era questa la novità che avrebbe segnato un passaggio epocale. L’alluminio prima, la fibra di carbonio poi, furono un fine che doveva passare per un’altra rivoluzione: quella delle misure.
Addio su misura
Nella seconda metà degli anni ‘90 la bicicletta al top era quella su misura. Il telaio disegnato con cura, le quote da rispettare e i telaisti custodivano gelosamente le schede dei corridori con cui lavoravano. Decimi di grado e millimetri erano appuntati con cura in quei bloc notes sporchi di polvere e officina ma preziosissimi.
Telai Compact
Si cominciò a parlare di geometria compatta. Quella che che già si stava affermando perché, storicamente, si cercava di fare i telai più rigidi riducendone le dimensioni (anni più tardi avremmo già discusso la cosa scrivendo questo articolo)
Qui però si parlava proprio di geometria compact. Ancora non era uscito il termine “sloping” a significare l’inclinazione del tubo superiore che pian piano avrebbe perso la sua caratteristica di “orizzontale”.
Un telaio compatto altro non era che una struttura più raccolta che lasciava ai componenti l’onere del posizionamento corretto del ciclista. Sfogliando gli appunti di quella fine 1996 leggiamo che i nuovi telai compact venivano proposti da Giant in tre taglie per coprire tutte le misure. Per il montaggio si utilizzava un reggisella speciale, elaborato appositamente e disponibile in sette misure diverse (da 140 a 320 millimetri) per compensare la brevità estrema del tubo piantone.
Nella parte anteriore la misura andava perfezionata con l’attacco manubrio giusto: Giant forniva tre attacchi manubrio snodati realizzati in alluminio forgiato (105, 120 e 135 millimetri). La misura corretta si trovava muovendo lo snodo (che permetteva un’inclinazione differente dell’attacco) ed estraendo opportunamente l’attacco stesso dal tubo di sterzo.
Interessante come veniva data la possibilità, per chi avesse una corporatura media, di scegliere addirittura tra i tre telai (pure se l’azienda consigliava, indicativamente, la misura più piccola) così da avere una scelta tra le diverse inclinazioni dei tubi (74, 73,5 e 73 gradi la misura del piantone per le tre misure) e quindi sulla resa della bicicletta. Si trattava, insomma, di strizzare l’occhio agli scettici: si veniva pur sempre da telai esclusivamente su misura nell’alto di gamma.
La portata di quella rivoluzione
Perché ci è venuto in mente quell’articolo? Perché quei telai, a ben guardare, segnarono il passaggio a un nuovo modo di concepire la bicicletta. Si iniziò ad abbattere il tabù del telaio di misura standard anche per l’utilizzo professionale. Quella novità apriva la strada all’industrializzazione nella realizzazione dei telai (e se l’autore era Giant, era facile intuirne la portata). Ancora di più avrebbe fatto comodo alcuni anni dopo quando si iniziò a parlare di telai monoscocca in fibra di carbonio.
Paradossalmente, fossero arrivati in quel momento i telai monoscocca di oggi, misure standard, sarebbero stati snobbati proprio per l’impossibilità di una realizzazione su misura. Invece sono arrivati con la strada già spianata da un programma che evidentemente aveva visto lungo anche solo per l’alluminio ma, più in generale, per l’industria ciclistica che ne sarebbe derivata: quella dei grandi numeri e delle multinazionali.
E pensare che oggi ci si arrovella sulla questione “commerciale” dei freni a disco. A ben vedere il mercato ha fatto passi ben più lunghi in passato. E tutto sommato non è andata poi così male.
Riproduzione riservata – Cyclinside
Nel lontano 1993 ben prima di Giant una casa italiana aveva realizzato il primo telaio in carbonio monoscocca che con una solo modello copriva le taglie dalla 47 alla 61.
Forse erano troppo avanti sia per il mercato che per i ricordi…..
Se siete interessati provate a cercare informazioni sul telaio C4 Carbon 47.61