Avevamo iniziato a raccontare l’anno scorso un viaggio avventuroso, sulle Ande, che portava con sé anche una bella iniziativa di solidarietà. Lo riprendiamo da qui. Ripartendo dall’Ecuador.
Francesco e Giovanni li abbiamo già raccontati qui:
Un viaggio sulle Ande per raccontare una bella iniziativa di solidarietà
Ecuador
Nella terza settimana del marzo 2023, coroniamo il nostro primo confine Sudamericano.
Lasciamo infatti la Colombia, con la vista dell’incredibile cattedrale di Lajas incastonata nella roccia, per oltrepassare ufficialmente il ponte internazionale del Rumichaca ed entrare così in terre ecuadoriane.
L’Ecuador fino a questo momento ha rappresentato per noi la natura più incontaminata. Oltre a paesaggi mozzafiato, siamo anche accolti da scrosci quotidiani. Pedaliamo durante la stagione delle piogge, che potremo testare sul nostro equipaggiamento… sempre fradicio.
Puntiamo subito il Páramo de las Lagunas, altopiano tra i 3.400 metri e i 3.700 metri di altezza, dove ci accampiamo con le nostre amache per la prima volta. Ci troviamo nell’unico bosco visibile e raggiungibile tramite un sentiero incolto, dove ci facciamo spazio a suon di colpi di machete.
Ci addentriamo tra distese di “frailejones” (pianta grassa tipica dei párami che funge da riserva idrica naturale) e innumerevoli “derrumbes” (frane), che rendono il percorso lungo, difficoltoso e soprattutto non battuto da nessuno a nostra eccezione.
Tre giorni su questo páramo ci hanno temprato, e soprattutto svelato quanto la natura possa essere violenta e pericolosa. Il terzo giorno ecuadoriano, infatti, sarà uno dei momenti più critici del nostro viaggio. Stiamo cucinando nel bel mezzo della strada, quando improvvisamente comincia a piovere. Mangiamo zuppa mista a pioggia accovacciati sotto un frailejones, ma il cielo si oscura e i tuoni si fanno sempre più vicini. Non abbiamo scampo, non c’è spazio per la tenda e dobbiamo riprendere il cammino per raggiungere la vetta. Appena ripartiamo però, Eolo ci scarica addosso una tempesta di grandine, a 3.700 metri, dove noi, già fradici dalla pioggia, cominciamo a sentire freddo e a preoccuparci per lampi pericolosamente vicini. Decidiamo così di lasciare le bici a bordo strada, che oramai si è fatta un fiume di grandine e acqua, e di camminare su e giù per non rischiare l’ipotermia. Dalle scarpe al casco siamo fradici, ma dopo un’ora intensissima, riusciamo a ripartire nel gelo più totale fino a trovare l’unico posto a fianco della strada inondata dove possiamo accamparci e riscaldarci.
Un páramo tanto bello quanto insidioso, che ci permette di raggiungere Otavalo, prima città di pausa ecuadoriana, dove cominciamo ad assaporare la cultura indígena Kichwa.
Siamo ospitati dalla famiglia di Daqui, ragazzo di incredibile bontà conosciuto tramite amici di amici. Grazie a lui saremo presto coinvolti in giri vari tra mercati di artesanía locale, concerti di musica andina suonati con strumenti caratteristici e pranzi tradizionali con tanto di raccolta di “choclo” (pannocchie di mais).
A Peguche, pueblo a fianco di Otavalo, la cugina di Daqui ci fa assaggiare una pizza veramente buona, dopo aver condiviso con noi la sua esperienza culinaria in Italia.
Dopo Otavalo, portiamo a casa un nuovo record sul lago di Mojanda per l’accampamento più alto, con i suoi 3.723 metri. La strada per raggiungere il lago ci distrugge per il ciottolato irregolare, ma la vera impresa sarà la discesa verso Quito. Tra fangaglia, pastiglie usurate e fumanti, e attraversamenti illegali tra delimitazioni di proprietà, ci facciamo strada fino ad arrivare alla capitale ecuadoriana dopo 255 chilometri pedalati.
A Quito siamo ospiti di Susie e Cristian, due persone incredibilmente gentili e ospitali che hanno vissuto in Italia per molti anni. Ad ora si occupano di ristorazione e gestione di una “tienda” (negozio alimentari). Siamo trattati con i guanti, essendo anche loro molto inclusivi, ci troviamo subito a condividere le nostre esperienze, condite dai piatti stellari di Susi. É, infatti, a Quito che facciamo le nostre vere esperienze culinarie ecuadoriane. Tra encebollado, bolones, fritadas e fanesca guadagniamo ricette preziose e alcuni chili aggiuntivi che serviranno in futuro.
Siamo ospitati a Sud di Quito, parte particolarmente pericolosa della città. Non è consigliato uscire dopo le sette di sera nelle zone limitrofe, e pertanto le nostre principali uscite sono: giri turistici nel centro storico e nella famosa “mitad del mundo”, e camminate al marcato con obiettivo succo di frutta tropicale (naranjilla y borojo, è uno dei più buoni).
È proprio al mercato di Quito che mentre Gio gode delle bontà di Susie, Fra si becca un “malo ojo” o “aire fuerte”. Si tratta di un malocchio che rende la vita del soulbiker abbastanza difficile per tre giorni buoni. Gli spostamenti tra letto e bagno sono fermati solamente dal potere di due sciamane, che tramite un rituale particolarmente bizzarro composto da massaggio con uovo, sputi di “trago” (alcohol con erbe) e fumo di sigaretta nelle orecchie, riescono a rimettere in sesto Fra permettendo così la ripresa verso “la ruta de los Vulcanos”.
Ci aspettano due settimane immersi nella natura incontaminata tra vulcani attivi, lagune d’acqua cristallina e panorami lunari. Pedaliamo no stop, accampandoci sempre più in alto coronando passi tra i più famosi vulcani.
Siamo sfortunati con la vista del Cotopaxi, vulcano attivo e prima grande vetta con accampamento relativo ai 3.810 metri. Ma ci rifacciamo gli occhi con le punte innevate dell’Illiniza. Raggiungiamo la laguna del Quilotoa provando il freddo dei 3.900 metri in una pedalata notturna (quel giorno abbiamo pedalato 75 chilometri con 1.930 metri di dislivello). Lo spettacolo vero arriva però sul Chimborazo, dopo una pedalata fino ai 4.406 metri di altitudine, ci accampiamo con vista diretta sul vulcano più alto al mondo. Siamo noi, la tenda, i “vacuñas” (tipologia di lamas) e il Chimborazo che ci guarda.
Il paesaggio lunare ci infonde forza e spirito, caratteristiche che ritroviamo umanizzate nel grande Ché, un “loco” (pazzo) argentino che ci fa scoprire l’artesania, il godere delle piccole cose e la mentalità imprenditoriale di un cicloviaggiatore da 20 anni. Grazie al Ché, anche noi iniziamo a prenderci più tempo per godere dei luoghi e persone che incontriamo, e ad approfondire maggiormente il mondo magico dell’artesania. Decidiamo infatti di ammortizzare i costi del viaggio con la vendita di braccialetti e collane, che presto verranno migliorati con l’aggiunta di “semillas” (semi) amazzoniche.
Dopo tante fatiche arriviamo a Cuenca, dove siamo ospitati da Elvia e godiamo di ulteriore comida tipica, e panorama sulla città ecuadoriana più bella vista fino ad ora. Incontriamo nuovamente El Ché, che avevamo abbandonato tra le rovine di Ingapirca, e dopo aver fatto il nostro check up meccanico delle bici ripartiamo in direzione Loja, passando per l’Amazzonia Ecuadoriana.
Abbiamo infatti deciso di deviare dalla Cordillera per godere della vista amazzonica. Tra caldo umido e “arenillas” (zanzarine molto fastidiose il cui morso causa prurito per giorni e giorni) ci facciamo catturare dalle meraviglie naturali e dalla cultura Shuar.
Pedaliamo in salita tra alberi immensi, arbusti e liane che ci risucchiano in una vegetazione che predomina sopra ogni cosa. Vediamo animali e insetti dalle dimensioni paranormali, tra cui tarantole, insetti stecco e coleotteri ultra-colorati.
Nella prima città amazzone mangiamo nuovamente il “cuy” (porcellino d’india cucinato allo spiedo, nonché piatto tipico ecuadoriano), mentre a Gualaquiza abbiamo la fortuna di accamparci nel mezzo di un giardino botanico curato da “El Gato”, che dopo 20 anni di lavoro ha creato un luogo biodiversamente unico.
Continuiamo ad addentrarci nella selva sempre di più, conoscendo l’artigianato indigeno della cultura Shuar, assaggiando cacao direttamente dalla pianta e raccogliendo semi dai colori improbabili. É proprio in questi luoghi che cominciamo a conoscere il valore della spiritualità all’interno delle culture indigene. Dalle incredibili narrazioni della magica radice di ayahuasca all’utilizzo della pianta totumo nella cucina locale, entriamo in un mondo dove la “Pachamama” (madre natura) regna sovrana.
Dopo una pedalata in salita infinita per rientrare nella cordillera andina, raggiungiamo la città di Loja, dove principalmente ci occupiamo del nuovo set up delle nostre bici. Siamo infatti sempre più pesanti: tra totumi, semi, artesanía e vestiti locali accumulati fino ad ora, abbiamo bisogno di più spazio. Grazie al falegname Víctor, riusciamo a costruire un portapacchi anteriore, per creare un nuovo appoggio nella nostra casa mobile.
Freschi e più organizzati, ripartiamo all’attacco per raggiungere il confine peruviano. La strada prescelta rimane quella della selva, per poter entrare in Perù il prima possibile.
A Vilcabamba incontriamo Jairo, che ci insegna nuove tecniche da artigiani, mentre a Valladolid ci facciamo un ennesimo bagno nel fiume (con tanto di acqua bevuta per errore), l’unico modo per rinfrescarci dopo la fatica e il sudore nella umida selva.
L’Ecuador ci ha insegnato molto, noi la chiamiamo “la despertada”. Una svolta nel modo di viaggiare, con una consapevolezza diversa del mondo che ci circonda e una curiosità insaziabile verso la cultura locale. Anche in Ecuador abbiamo conosciuto innumerevoli persone che ci hanno profondamente cambiato. Arricchiamo il nostro bagaglio con la coscienza del fatto che tutto si può fare, se lo si vuole veramente. Che sia raggiungere il vulcano più alto del mondo, imparare a produrre e vendere artesanía o comunicare con locali ed entrare nella loro routine, volere è potere.
La bicicletta ci dà il potere di muoverci senza impattare l’ecosistema, e noi vogliamo pedalare le Ande.
È tutto vero, si entra ufficialmente nel terzo paese Sudamericano, arriviamo Perù!