Ricordati che la prosa è architettura, non decorazione di interni.
Ernest Hemingway
Shabbat
Sabato mattina, la sveglia squilla poco dopo le tre. A quest’ora, in tutta Italia, la gente o sta dormendo o sta rientrando a casa con le mutande felici e qualche rimorso in più. Qui in Chianti, però, le cose vanno in tutt’altro modo: la biciclette pre-1930 partono alle 4:30 e se voglio essere a Gaiole in tempo, mi devo sbrigare.
I vestiti e lo zaino con la macchina fotografica (notare il singolare: me ne sono scordata una a casa..) sono pronti da ieri sera, mi faccio giusto una doccia simbolica, tanto per dire al mio organismo che no, non c’è nessun errore: si deve svegliare, poi consegno le chiavi della stanza a un portiere di notte che sembra uscito da una canzone di Ruggeri, accetto il suo caffè retrò (nel senso che ricorda quello fatto con la cicoria che si beveva durante la guerra), mangio una crostatina fossile e salgo in auto.
Qualche chilometro in una Siena deserta, poi venticinque chilometri di toboga sulla Chiantigiana, al buio e con la paura costante di trovarmi un cinghiale dietro una curva. Arrivo a Gaiole poco dopo le 04:00; parcheggio e scendo verso la linea di partenza.
Se avessi più di tre ore e mezza di sonno, memorizzerei quello che vedo per usarlo poi nel mio articolo, ma sono troppo stanco per mettere in atto gli insegnamenti di Hemingway ai giovani scrittori, così, adesso, una settimana dopo l’evento, tutto quello che mi ricordo è il contrasto fra il paese di Gaiole, buio e silenzioso (come sono tutti i posti dove vive gente per bene, alle quattro di mattina del Sabato) e l’animazione della strada da cui parte la gara. Qui, nei cento metri che separano il banco della timbratura dalla linea di partenza, sembra di essere in un film di Spielberg dove un gruppo di ciclisti degli anni ’20 del XX Secolo è trasportato nel tempo cent’anni dopo.
Ruote di legno, pantaloni alla zuava, maglie con la bandiera sabauda.. se non fosse per i fari e le luci posteriori delle biciclette, penserei di essere mio nonno.
Se il timestamp delle mie foto è corretto, alle 04:33:03, Franco Rossi abbassa la bandiera a scacchi e la venticinquesima Eroica ha inizio.
Le luci rosse delle biciclette pre-1930 si allontanano e scompaiono nel buio.
Mezz’ora dopo, c’è la partenza delle “lunghe”, ma la sensazione di paradosso temporale svanisce, spazzata via dai caschi, dai gilet anti-vento e soprattutto dai selfie con lo smartphone sulla linea di partenza:
Quando anche la seconda ondata di ciclisti eroici è stata inghiottita dal buio della Chiantigiana, il “vostro corrispondente”, come direbbe Ernest, deve prendere una decisione cruciale, ovvero se andare a fare qualche foto a Brolio o tirare dritto e tornare a Siena, per la tappa a piazza del Campo. Scelgo di tornare a Siena: fra me e Brolio ci sono tutti i ciclisti che ho visto partire poc’anzi e, con l’auto, rischio di arrivarci troppo tardi.
Mentre percorro in senso inverso la strada che ho fatto un’ora prima, vi intrattengo con una questione lessicale..
Cos’è, un eroe?
Se dobbiamo credere a Christopher McDougall (e perché, non dovremmo? è un giornalista di Men’s Health, la rivista che, da più di trent’anni, insegna agli uomini come ottenere ciò che desiderano di più, ovvero una pancia piatta e una donna ebbra di sesso..), essere un eroe vuol dire proteggere:
Quando i greci crearono l’ideale eroico, non scelsero una parola che significava “muori nell’intento” o “massacra i cattivi”, bensì la parola ἥρως (ovvero eroe), “protettore”.
Se ci pensate, è proprio questo, che facciamo, a L’Eroica: proteggiamo. La trinità pagana Brocci, Rossi, Iacovella protegge il Rito e il luogo di culto (le strade bianche); l’Arcangelo Carube, che con la sua tromba annuncia la lieta novella della partenza, protegge le biciclette dall’usura del tempo; gli angeli custodi (volontarii) lungo il percorso proteggono i partecipanti, rifocillandoli e indicando loro la strada; i profeti e gli esegeti della Sala Stampa proteggono la memoria degli eventi dall’oblio e infine i ciclisti, con il loro esempio, proteggono i valori dell’amicizia, delle benevolenza e del “piacere della fatica” dalla decadenza dell’Era Kali Yuga.
Vorrei aggiungere qualche altra considerazione etico/esistenziale, ma per vostra fortuna sono arrivato a Siena e, malgrado la segnaletica stradale (che, qui nel Chianti, è affidata a buontemponi sempre in vena di scherzi), sono riuscito ad arrivare in Piazza del Campo.
Lo spettacolo della Torre del Mangia (abbreviazione di: mangiaguadagni, riferito alla simpatica tendenza di Giovanni di Balduccio di sperperare tutti i suoi guadagni al gioco) avvolta nella nebbia dell’aurora sembra una gigantesca foto di David Hamilton e mette a tacere anche la mia innata propensione alla lamentazione: sì, d’accordo, mi sono dovuto svegliare alle tre, dopo poco più di quattro ore di sonno, ma ne valeva oggettivamente la pena.
Centodue metri più in basso, i primi ciclisti eroici si affollano intorno ai banchi che offrono leccornìe di vario genere. Oltre all’Italiano, sento parlare in Tedesco, Francese e Spagnolo. I fari delle biciclette, appoggiate ai pilastri di travertino bianco che delimitano la piazza, creano un’atmosfera magica e permettono anche a fotografi scarsini come il sottoscritto di portare a casa un’onorevole pagnotta:
Nelle due ore che passo in Piazza del Campo, il buio lascia il posto all’aurora e poi a un’alba brumosa.
Appena la luce lo consente, monto il teleobiettivo e, cauto come un cecchino durante l’assedio di Stalingrado, scatto un po’ di primi piani senza farmi accorgere dai soggetti delle foto:
Verso le otto, arriva il Direttore di Cyclinside con il suo telefono ammaestrato, cosa che rende Piazza del Campo definitivamente mainstream. Dopo avergli rovinato (intenzionalmente) una bella foto da vicolo Duprè mi concedo un cappuccino caldo per mandar via la nebbia dalla cervicale e me ne torno all’automobile.
(MEMO: devo ricordarmi di fare come lui e di arrivare sempre tardi ai ristori, perché, se ci arrivi troppo presto, ci sono poche donne.)
Lascia entrare Asciano
Fatto un rapido esame della mappa del percorso, mi avvio verso il punto di controllo di Murlo, che però non offre grosse attrattive, dato che ci sono solo il banco per timbrare il ruolino di marcia e una officina per controllare le biciclette prima del tratto di strada bianca. Decido per ciò di proseguire verso Castiglion del Bosco, ma fatti un paio di chilometri di sterrato sulla SP103, realizzo che la mia auto, essendo a GPL, non ha una ruota di scorta e che se mi capitasse di bucare (probabile), dovrei chiamare il carro attrezzi per tornare indietro. Sarebbe una buona occasione per rendere più avvincente il mio resoconto, ma opto per la prudenza: mi fermo dopo il ponte sull’Ombrone, scatto qualche foto ai ciclisti che si avviano volontariamente al martirio, poi, con cautela, faccio inversione e torno indietro.
Attraverso Buonconvento e arrivo ad Asciano canticchiando ossessivamente una versione modificata di: “Esce ma non mi rosica”, la nota canzone iraniana italianizzata:
Hey, lascia entrare Asciano
L’otto di Gennaio
Perché limarla è tosta
Esce, ma non mi rosica
Anche la strada per le Sante Marie, però, è sterrata (guarda caso..), così mi rassegno a tornare a Gaiole, dove metto a tacere le voci di una mia presunta adesione agli ideali vegani con un pranzo a base di proteine animali:
Sfiorata la tragedia
Il pomeriggio di Sabato trascorre tranquillo.
Mentre qualcuno sonnecchia in Sala Stampa per recuperare il sonno perduto, io vado all’officina di Carube per chiedergli se può registrare il cambio della mia bicicletta.
Roberto sta finendo di sistemare una bellissima Legnano sotto lo sguardo vigile del Sindaco di Gaiole, Michele Pescini.
«Ti ha fatto un bel regalo, il tuo Santo», gli dico.
Il 29 Settembre, che oltre a essere una canzone di Battisti è anche San Michele, su Gaiole sono piovuti 200mm di pioggia, contro i 20mm piovuti in tutta l’estate.
Per fortuna qui la terra è buona e già il Venerdì la situazione era tornata alla normalità.
«È vero, non ci avevo pensato», risponde Michele e sta per aggiungere qualcosa quando, alle nostre spalle, succede il dramma.
Prima di raccontarvi cos’era successo, devo fare una doverosa premessa: Carube, in quel momento, gareggiava con Livio Iacovella per il titolo di Persona Più Stanca di Gaiole.
Livio aveva due occhi a fessura che sembrava un Bancomat, ma anche Roberto non scherzava.
La sera prima, e chissà da quante sere prima di allora, aveva lavorato fino a tardi, come il legnaiuol de Il Sabato del Villaggio, che:
s’affretta, e s’adopra
di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.
in queste condizioni, una disattenzione può capitare, specie se mentre lavori sei circondato da amici oziosi che ti distraggono con le loro chiacchiere o se qualcuno sposta la bomboletta del grasso spray e la sostituisce con quella della vernice rossa..
È un attimo: Pescini ed io ci ritroviamo imprigionati in un’officina con la versione toscana di Godzilla che paragona a ungulati domestici buona parte del Pantheon cattolico.
Io, che sono eroico e per ciò devo proteggere, decido di proteggere la mia incolumità fisica e scappo in Sala Stampa a chiedere dove posso trovare un esorcista (non per Roberto, ma per me: vorrei mettere in chiaro con la Beata Vergine e con altre figure di spicco del Paradiso la mia totale estraneità ai fatti).
Roberto credo sia stato sedato da un veterinario con un proiettile soporifero di quelli utilizzati normalmente per i grandi felini.
Michele non so cosa abbia fatto, ma l’ho visto vivo il giorno dopo, quindi, da buon politico, in qualche modo è sopravvissuto.
Effetti collaterali della Ribollita
La mattina di Domenica, la sveglia telefonica dell’albergo squilla alle 06:00, ma io sono sveglio già da un po’.
I miei bagagli sono pronti dalla sera prima e così pure il mio abbigliamento vintage, ma io mi vedo costretto ad approfittare ancora un po’ dell’ospitalità dell’Hotel Garden perché ho un leggerissimo problema intestinale e preferisco affrontarlo nella camera di un quattro stelle (grazie, Livio) invece che al buio sulla Chiantigiana.
Suppongo che il problema sia la ribollita che ho mangiato la sera prima, ma non ne posso essere sicuro; comunque, non fa nessuna differenza.
Fatto sta che sono in ritardo: riuscirò a partire da Siena solo alle 6:45, un quarto d’ora prima che sia dato il Via per il percorso da 109 chilometri.
La cosa, in sé non sarebbe un grosso problema: all’Eroica puoi partire quando ti pare, ma in questo caso specifico il mio ritardo assume connotazioni di tragenda perché, per celebrare le nozze d’argento dell’Eroica, la mia amica Alberta ha indossato una gonnellina acchiappa-giapponesi e io non avrò occasione di vederla.
La strada per Gaiole, incredibilmente, è molto più affollata alle sette di mattina che alle tre di notte e, a mano a mano che ci si avvicina, aumentano i ciclisti lungo la strada che rallentano i traffico delle auto.
Arrivo a Gaiole giusto in tempo per provare i bagni pubblici portatili, posti astutamente in prossimità dei parcheggi, poi, per fortuna, la Tempesta del Secolo si placa e io posso prepararmi alla partenza.
Il primo tratto del percorso è senza sorprese: discesa fino al bivio per Brolio, salita con curve, poi sosta davanti alle cantine, ascoltando la musica di DJ Iaia.
Sto bene, ma non benissimo, gli eventi della mattina hanno leggermente minato la mia già scarsa forma fisica.
In cima al tratto di sterrato dedicato a Berruti c’è più gente che a via del Corso la prima Domenica di saldi.
Io, dall’alto delle mie tre precedenti partecipazioni, mi sento habituée, come diceva Sergio Caputo e, malgrado il fiatone non mi fermo per non mischiarmi con i “novizi”.
Mentre faccio qualche foto alla fine della prima discesa pericolosa, arriva il mio Direttore – in auto, ma con delle macchine fotografiche vere, in vece del maledetto Oppo – in compagnia di un’affascinante Alessandra Ortenzi, che, da quando ha ricevuto il Premio Donna Sport, ha capito di essere una femminuccia e, finalmente, si veste di conseguenza, invece di fingersi un palombaro.
Sulla salita per Radda ho l’occasione di verificare un corollario alla frase di Paolo Penni Marelli:
In fotografia, la fortuna non esiste.
La salita in questione prevede una curva con fondo sterrato piuttosto sdrucciolevole.
Io la passo senza problemi, ma siccome sono stanco, mi fermo pochi metri più su per fare qualche foto e riprendere un po’ di fiato.
Mentre sto tirando fuori la Nikon, una ragazza arriva sul brecciolino e va per terra prima che io riesca a immortalarla.
Memore dell’affermazione di Paolo, decido di stabilire se valga anche l’inverso ovvero se, in fotografia, “gufare” aiuti.
Mi apposto sul bordo della strada e aspetto.
Passano i minuti, ma anche se il flusso dei ciclisti è pressocché costante, non succede nulla.
Qualcuno slitta con la ruota posteriore, altri “mettono piede a terra” e proseguono camminando, ma nessuno cade.
Dopo circa dieci minuti, però, arriva una fanciulla su una bicicletta da uomo rossa con una bellissima borsa di cuoio appesa al manubrio.
Lei, malgrado il tubo orizzontale del telaio, indossa una gonna grigia che non le agevola i movimenti.
Appena la vedo pedalare improvvidamente verso il punto più sdrucciolevole del percorso, capisco che sta per succedere qualcosa e la seguo con l’obiettivo.
Ciò che avviene dopo, è illustrato dalle foto qui sotto:
Radda rationem (di cibo)
Dopo un’altra discesa pericolosa – resa ancor più ostica dal fischio costante prodotto dai miei freni -, l’ennesima salita ci porta fino al punto di ristoro di Radda.
Io, lo confesso, sono piuttosto provato.
C’è una signora che sta facendo un massaggio alle spalle di una concorrente che potrebbe essere sua figlia; le chiedo se dopo può fare la stessa cosa anche a me e lei sembra possibilista, ma il marito – o comunque il maschio della specie – non sembra essere dello stesso parere, così, desisto.
Come sempre, lascio la bicicletta appoggiata alle mura del paese, sperando che qualcuno me la rubi, poi mi dedico a un altro esperimento scientifico, volto a stabilire quante fette di pane con l’olio si possano mangiare prima che intervenga il coma diabetico.
A questo punto devo prendere una decisione: o proseguo sul percorso degli 81 chilometri oppure seguo l’ultimo tratto del percorso dei 209 e torno direttamente a Gaiole.
Il mio orgoglio mi spinge a proseguire, se non altro per non essere da meno di una simpatica ragazza – curvy ed elegantissima, nel suo abito con gonna sopra il ginocchio nero e calzettoni a losanghe nere e rosse -, con cui ho fatto conoscenza a un ristoro volante lungo la strada (dove c’è la cabina telefonica inglese) e che ho ritrovato qui, in procinto di ripartire alla volta di Volpaia.
D’altro canto, come dice Vasco, l’orgoglio ne ha rovinati di più che il petrolio, quindi non so se sia il caso di dargli retta.
Mangio un altro pezzo di pane con l’olio, mentre ci penso.
Uno sguardo alle altimetrie dei percorsi risolve i miei dubbi: forse riuscirei a fare altri trenta chilometri, ma sono certo di non poter affrontare i seicento metri di dislivello fino a Volpaia.
Trovo altre giustificazioni più dignitose per la mia vile rinuncia (c’ho avuto la malattia, il tempo volge al brutto, non ci sono più le mezze stagioni), ma la realtà è che non c’ho la gamba.
È triste, indubbiamente, ma, una volta accettato questo dato di fatto, la mia vita diventa di colpo più facile: riempio la borraccia alla fontanella della piazza, poi mi avvio in piacevolissima discesa verso il bivio per Gaiole.
Sulla rotonda in fondo alla discesa rischio di fare un botto perché un ebete che mi ha sorpassato all’inizio della rotatoria mi taglia la strada lisciandomi per un pelo, ma i restanti nove chilometri fino a Gaiole trascorrono senza problemi, fatto salvo, ovviamente, il suddetto fischio dei miei freni, a causa del quale rischio di venir lapidato dai miei compagni di cammino.
Poco prima che cominci il discesone sterrato che porta a Gaiole, vedo un ciclista che si è fermato sul lato della strada e sta leggendo un libro, comodamente sdraiato ai piedi di un albero.
Altri due chilometri di discesa e sarebbe arrivato a Gaiole, ma lui ha preferito fermarsi qui, tranquillo.
In un fragore di freni degno di una locomotiva a vapore, mi fermo e torno indietro per fotografarlo.
È lui, l’incarnazione dello spirito de L’Eroica.
L’Eroica è come le orge
Lo capisco poco dopo, mentre ritorno alla mia auto con la medaglia di fine percorso che mi ballonzola sul petto.
Chiamo il mio amico Michele, che sta tornando a casa (lui e il gruppo di Zio Bici hanno fatto la lunga Sabato) per dirgli che sono arrivato.
La prima cosa che mi chiede è:
È andata bene? Ti sei divertito?
Non chiede: Come ti sei piazzato?, Che media hai tenuto?, Quanti Kw hai prodotto?, ma solo: Ti sei divertito?.
Perché è questa, l’unica cosa che conta, a L’Eroica: divertirsi.
“A L’Eroica”, penso, “l’importante non è vincere, ma partecipare” e dato che ho dormito meno di otto ore in due giorni e avere meno di otto ore di sonno in due giorni è una delle due occasioni in cui il mio cervello tende a fare paragoni sessuali per qualunque evento (l’altro caso è quando dormo più di otto ore in due giorni), aggiungo: “come per le orge”.
Strafatto di endorfine beta, ragiono su questo paragone e mi accorgo che, in effetti, ci sono molte similitudini fra L’Eroica e le orge:
- nessuno ha interesse ad arrivare per primo
- qualcuno partecipa in coppia, qualcuno da solo
- fra un “gesto atletico” e l’altro, ci sono dei rinfreschi
- capita di passare molto tempo con dei sederi davanti agli occhi
- c’è sempre qualcuno che fa delle foto o dei filmati
C’è solo un piccolo particolare, che distingue L’Eroica dalle orge ed è il rapporto fra i partecipanti.
I frequentatori dei club privée e dei partouze, quando si incontrano alla luce del giorno, fanno finta di non conoscersi o si salutano solo con un cenno del capo, come gli appartenenti al Fight Club, perché ciò che si è fatto in privato deve rimanere pubblicamente segreto, inconfessato spesso anche a sé stessi.
Il popolo dell’Eroica, al contrario, è una grande famiglia allargata in cui ciascuno cerca sempre di dire agli altri tutto ciò che ha fatto o visto, perché all’Eroica non si viene né per vincere, né per il cibo, né per ammirare le concorrenti in gonnellina.
Andiamo all’Eroica per avere sempre nuove storie da raccontare.
11 ott 2022 – Riproduzione riservata – Cyclinside