10 apr 2017 – Arenberg è un urlo che risale dalla foresta e scaccia via i folletti dispettosi. Una forza sovrumana, un grido tutti insieme a seguire i primi, in una ola, spingendoli di rabbia e di entusiasmo per quelle pietre che tutto sembrano fuorché una strada per passarci su a cinquanta all’ora con una bicicletta. Nel primo tratto è anche un po’ in discesa e si va dentro tutti in fila a menare a più non posso.
Facce impolverate, dolore vero. Quello che dovrà ancora moltiplicarsi per tutti i settori di pavé che sono passati e per quelli che devono arrivare. Alla fine le braccia si addormenteranno e si arriverà al velodromo che il dolore sarà lì oltre che nelle gambe. Ti farà male tutto, avevano promesso ai corridori.
Entra Trentin ad Arenberg, Sagan a ruota a mettere in crisi un Van Avermaet capitombolato nella polvere.
Belgi, tenacia e cuore. Una resistenza infinita alla birra, già abbondante a due ore dal passaggio e una resistenza infinita al pavé da aggredire per rilanciare. Quando passa Van Avermaet dentro Arenberg l’urlo torna alto, come per Boonen una trentina di secondi prima.
Suoni gutturali e altri più profondi, bandiere e urla. Erano così i barbari? A un certo punto riecheggia anche l’inno italiano e fa uno strano effetto quassù. Quell’unica bandiera tricolore a metà del pavé riprende fiato. Italiani? Belgi ormai, ma l’Italia nel cuore da sempre come la gioia di riparlare per un po’ la loro lingua con uno straniero.
Belli gli italiani oggi in corsa. Da turbo-Trentin all’imponente Oss. Una cavalcata impavida per uno che rimane gigante anche quando si inchina al suo re e lo aspetta per consegnare alla sua gloria l’ultimo tributo di fatica.
Orgoglio pazzesco e volontà: quella di Moscon, italiano poco considerato ma lì, a sbucare fuori come i folletti della foresta e a soffrire e rientrare. La sua squadra sparita nelle retrovie e lui, a 23 anni, contro il drago più feroce. Forza e tattica per come si è saputo gestire. Lo chiamavano promessa, la sta già mantenendo.
È finita nel modo giusto nel velodromo, anzi no. Il modo giusto per tutti sembrava solo la cinquina di Boonen e sarebbe stato naturale. Era lui il più atteso in questo passo d’addio da étoile del ciclismo. Da campione ha retto le aspettative ma poi è mancato quel po’ di gas in più che gli faceva accarezzare le pietre volando via come nei tempi migliori. Le sue accelerazioni hanno pure fatto male, ma ormai partivano da dietro, sufficienti a far alzare in piedi tutto lo stadio, anzi il velodromo, nei secondi rosicchiati ai primi. Che tenacia Tommeke! Ci mancherà.
Pure Sagan ci è mancato a Roubaix. Il suo attacco da lontano, aiutato finalmente un compagno, porta il sospetto di aver voluto sfruttare la squadra finché c’era. Perché da queste Classiche importanti si è capito che alla fine al campione del mondo manca un bel po’. Al Fiandre la tattica perfetta della Quick Step, alla Roubaix l’uno-due della BMC. Sagan alla fine deve fare da solo e di forza ne ha pure, ma quella maglia iridata ormai è il bersaglio naturale del ciclismo. Delusi? Ormai ci ha abituati bene, ma che spettacolo però. Quant’è che non si vedeva una maglia iridata così bella nel gruppo? Qualcuno aveva parlato di maledizione della maglia iridata. Sagan ha riportato le cose alla giusta dimensione: se sei un campione lo sei sempre. E lui diventa campione del mondo ad ogni corsa che fa.
Resta la polvere e le facce stravolte di tutti. Dovevate vedere i fotografi all’arrivo. Stessa polvere di Van Avermaet e soci. Anzi di più, perché loro stanno pure dietro e ne prendono tanta, come l’ultimo gregario. Macchine fotografiche da revisionare e biciclette da pulire.
Pensieri che scorrono via assieme al pubblico che defluisce dallo stadio e dalle stradine delle grigliate. C’erano da vedere i giganti, i mostri sacri. Li hanno guardati tutti, dal primo all’ultimo. Che anche chi passava staccato di tanto aveva il suo urlo e il suo applauso. Espressioni più miti, rispetto ai primi, rassegnate e sofferenti che avresti voluto spingerli pure in pianura. E qualcuno l’ha fatto, che quando non ne hai più la bicicletta si inchioda nel pavé. Per loro l’inferno ancora da pedalare e senza speranza di alcuna rivalsa. Stessa strada per tutti e dolori da smaltire sotto le docce di cemento del vecchio Vélodrome. Una pacca sulla spalla. Ritroveremo ancora tanta polvere e tanti la cercheranno, perché “l’enfer du nord mène au paradis”.
Galleria fotografica
Guido P. Rubino
Non ho visto la corsa in diretta . L ‘ ho ” vissuta ” ora . Grazie .
Ugo,
il “nostro” Guido ha uno stile, una classe, nel raccontare le corse, i corridori e l’ambiente del ciclismo, che solo i veri appassionati riescono a rendere con una vividezza migliore di tante immagini HD… Resto sempre ammaliato dai suoi testi!