26 lug 2018 – Ho sempre avuto una discreta simpatia per la Gendarmerie, la forza di polizia che in Francia si occupa del territorio rurale ed extraurbano. E, in particolare, per la sua divisione Départementale, quella che sta quotidianamente a contatto con la popolazione negli angoli più remoti del Paese. Ci lavora gente in gamba, anche una mia ex studentessa, molto seria e intelligente (e molto bella, specifico a beneficio dei curiosi), che anni addietro prese un semestre di congedo per finire gli esami universitari in Italia, prima della laurea.
In un’epoca in cui le attenzioni e le risorse dei più (politici, imprese, accademici, media, eccetera) sembrano concentrarsi soprattutto sulle grandi città e sulle metropoli, la Gendarmerie è il simbolo della permanenza del concetto di “territorio” nella quotidianità e nelle attività delle istituzioni. Controllo, certo, ma anche rapporti umani: più che “sicurezza”, una presenza rassicurante.
Quando stai in mezzo alla gente tutti i giorni, la gente inevitabilmente si accorge dei tuoi errori. Perché tutti sbagliano nella vita, dal panettiere al grande manager d’azienda, passando per i professori. Anzi: i professori sbagliano peggio degli altri, spesso.
Ma se hai una divisa addosso gli errori, purtroppo, si notano di più, sembrano più numerosi di quanto non siano. Nascono anche così le barzellette.
Se poi sbagli al Tour, l’evento sportivo più seguito al mondo, tutto si ingigantisce. Da barzelletta, diventa problema serio. Se sbagli ripetutamente al Tour, allora diventa un incubo istituzionale.
L’ultimo episodio spiacevole, per la Gendarmerie, è accaduto ieri sera al termine della diciassettesima tappa. Chris Froome sta ritornando a valle, dove sono posizionati i motorhome delle squadre, in bicicletta. È accompagnato dalla sua onnipresente guardia del corpo, che pedala su una MTB. Indossa un poncho impermeabile, Froome, per ripararsi dall’aria e dall’umidità. Un gendarme a bordo strada lo scambia per un cicloamatore che sta violando il divieto di transito. Lo afferra, lo scuote, quasi lo fa cadere. La bici finisce a terra malamente. Scatta un alterco che, per fortuna, si risolve immediatamente. Tutto viene ripreso da uno smartphone e fa subito il giro del mondo. Si grida allo scandalo, ancora una volta, dopo le moto coinvolte (marginalmente) nella rovinosa caduta di Nibali e dopo lo spray lacrimogeno spruzzato contro i manifestanti del collettivo “Pour que vive la Piège”, due giorni fa, ma finito anche in mezzo al gruppo dei corridori. L’unico errore vero e grave, fino a oggi.
Tira una brutta aria sul Tour, l’abbiamo già detto. E questo condiziona anche gli operatori della sicurezza. Dovrebbero garantire l’incolumità della Grande Boucle da fattori esterni, ma spesso si trovano a dover controllare anche una pletora di “tifosi” imbecilli in cerca di visibilità. È un inferno quotidiano in cui l’ansia da prestazione può portare a sbagliare, per eccesso di zelo.
Il vero paradosso è che l’incidente di ieri sia capitato proprio a Froome, il corridore più bersagliato dalla parte incivile del pubblico, in questa Grande Boucle. Sembra una beffa del destino. Per lui, per la Gendarmerie, per tutti.
Non vorrei proprio essere nei panni del gendarme coinvolto in questo ultimo episodio. Ma so che Pier Paolo Pasolini, grande poeta e scrittore italiano, uno che amava davvero il ciclismo (memorabile il suo dialogo con Vittorio Adorni, durante un “processo alla tappa” di Sergio Zavoli, nel 1969), oggi starebbe dalla sua parte.
Senza curarsi delle esegesi distorte che ultimamente affliggono una sua celebre poesia del 1968 (“Il Pci ai giovani”), Pasolini proverebbe empatia per quel poliziotto «senza più sorriso, senza più amicizia col mondo». Riuscirebbe a comprendere il suo stato mentale. Mentre non avrebbe dubbi nello scagliarsi contro i dementi del pubblico che puntano fumogeni verso i corridori, che sputano o tirano liquidi di dubbia origine contro Froome e il team SKY, che cercano di afferrare per il braccio Geraint Thomas, detto “G”, mentre sta sprintando verso il traguardo. «Siete pavidi, incerti […], ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati», direbbe loro, vedendoli correre in modo folle intorno ai corridori, in mezzo al gruppo.
A questo punto, forse, qualcuno mi avrà etichettato come “reazionario”. Ma forse no: i miei cinque affezionati lettori mi conoscono bene. E hanno il mio stesso “difetto”: pensano e osservano le cose del mondo con un margine di autonomia intellettuale.
In ogni caso non importa. Perché c’è comunque una tappa da raccontare, oggi.
E me ne stavo quasi dimenticando.
Si parte da Trie-sur-Baïse e si arriva nella storica Pau, dopo 171 chilometri. È il classico piattone, o quasi (tutto è vallonato, in Francia), di intervallo tra una frazione di montagna e l’altra. Giornata da velocisti: i pochi rimasti. Occasione ghiotta perché Peter Sagan è acciaccato, dopo la brutta caduta di ieri. Punta solo ad arrivare a Parigi, probabilmente. Ha già fatto di tutto e di più, in questo Tour: si merita una giornata tranquilla.
Parte subito la fuga. Sono in cinque: Terpstra, Hayman, Durbridge, Van Keirsbulck e Boudat. Vanno verso il nulla, come è sempre accaduto in queste frazioni per ruote veloci: il gruppo li controlla, allunga e accorcia il guinzaglio a piacimento.
Fuga e caduta in gruppo sono un format consolidato. Accade anche oggi. Ne fa le spese soprattutto Nairo Quintana. Riparte e si fa medicare. Forse pensa a un segno del destino: quando finalmente mi decido ad attaccare in salita, come ieri, poi il fato mi punisce. Domani avremo la misura della sua, eventuale, superstizione.
La fuga si esaurisce quando mancano 16 km al traguardo.
La Bora-Hansgrohe di Peter Sagan guida il gruppo. Forse sperano nell’onnipotenza del loro capitano, ma a tutto c’è un limite, nella vita.
Si consumano gli ultimi, inutili, chilometri di questa tappa.
Le carte si mischiano in vista della flamme rouge. Jacopo Guarnieri cerca disperatamente Arnaud Démare, per pilotarlo allo sprint. Quasi gli viene il torcicollo, a furia di girarsi indietro. Non lo trova.
Poi Démare riemerge dal mare agitato della volata. Miracolosamente, come ieri ha fatto nell’ultima salita di giornata. Ma oggi lo fa di suo, in modo meno sospetto. E finalmente vince.
Enrico IV di Borbone, re di Francia, detto Le grand, chioserebbe: «Parigi val bene un traino».
Paolo Bozzuto
(docente di urbanistica al Politecnico di Milano, autore del libro “Pro-cycling Territory“)