15 lug 2018 – “Cowboys from Hell”: il racconto della nona tappa del Tour de France potrebbe iniziare e finire qui, con il titolo di una vecchia canzone dei Pantera. Si correva sulle strade della Parigi-Roubaix, l’Enfer du Nord, ed è stato un autentico rodeo infernale.
Riavvolgiamo il nastro delle emozioni e proviamo a rivivere insieme questa frazione frenetica.
Sono 156 i chilometri da percorrere, partendo da Arras per arrivare proprio a Roubaix, dove ogni anno, nel locale velodromo, si conclude la regina delle Classiche, la corsa del pavé: “la corsa che si ribella”, come ho avuto modo di definirla, in passato, proprio sulle pagine di Cyclinside. E a quel vecchio articolo vi rimando per il mio usuale racconto del territorio, delle sue specificità storiche e culturali, perché oggi non c’è tempo. Oggi sta per succedere di tutto. E tutti sanno che sta per accadere.
Siamo al primo, vero, punto di svolta del Tour, dopo una settimana non esaltante sul piano agonistico. Perché i 15 settori di pavé presenti lungo il percorso della tappa costituiscono un terreno minato sul quale molti sono destinati a saltare. Ma chi? Come? Quando? Sono questi gli interrogativi che addensano nubi metaforiche sulla testa del gruppo. Perché oggi c’è il sole, in questa parte di Francia compresa tra la Normandia e le Fiandre. E fa anche molto caldo.
Il pavé significa polvere col bel tempo e fango con la pioggia. Scegliere cosa sia meglio è un po’ come valutare la padella e la brace: ognuno ha i suoi gusti, ma non si gode mai, comunque.
Insomma, è la classica giornata in cui chi vive di frasi fatte, vecchie e consumate, vi potrebbe dire: “oggi non sapremo chi vincerà il Tour, ma potremmo sapere chi non lo vincerà!”. Tristezza retorica. Io preferisco affidarmi ancora una volta alla vecchia canzone dei Pantera, che contiene un verso perfetto per descrivere l’aria che si respira in gruppo: «Showdown, shootout, spread fear within, without».
È proprio il “fattore P”, cioè la Paura del Pavé (volutamente con le maiuscole) a poter condizionare la corsa. In gruppo ci sono cinque vincitori della Parigi-Roubaix, quella vera, ma anche tanta gente che non si è mai sognata di correrla. In particolare, alcuni uomini di classifica o i gregari leggeri incaricati di scortare il proprio “capitano” sulle grandi salite che verranno.
La Paura del Pavé è una brutta compagna di strada. Ti consuma sul piano nervoso e fisico ancora prima di arrivare su quelle pietre irregolari e appuntite. Lo sapeva bene Bernard Hinault, che letteralmente odiava la Parigi-Roubaix. Lo sa bene Chris Froome che, il 9 luglio 2014, cadde lungo l’asfalto iniziale della quinta tappa del Tour, uscendo definitivamente di scena. In quella frazione, da Ypres ad Arenberg Porte du Hainaut, iniziò la cavalcata di Vincenzo Nibali verso la conquista della sua storica vittoria finale alla Grand Boucle.
Quella tappa è stata analizzata e descritta dal mio amico Arcangelo Farris, semiologo di talento che oggi gestisce il meraviglioso agriturismo di famiglia (siamo un Paese noto per la capacità di valorizzare i suoi cervelli), nel mio libro “Pro-cycling territory” (2016). Se vi annoiano i libri universitari, potete scegliere il recente volume scritto da Marco Pastonesi insieme allo stesso Nibali: si intitola proprio “La quinta tappa”. Per antonomasia, ormai.
È un memento, quella vicenda del 2014, che dovrebbe servire da lezione. Ma la Paura del Pavé è più forte, va oltre. Lo si capisce subito, oggi, quando Richie Porte cade dopo pochi chilometri dal via. Le pietre del settore numero 15, il primo da affrontare, secondo la numerazione decrescente tipica della Roubaix, sono ancora lontane. Tutti vogliono stare davanti. Si viaggia a velocità folle. Il danno è in agguato.
Porte cade e si frattura la clavicola. Si ritira. Come al Tour dello scorso anno, quando si fece ancora più male. Sempre durante la frazione numero nove. Pastonesi, che è uno dei pochi bravi a scrivere di ciclismo, potrebbe trarne un trattato agrodolce sulla sfiga: “La nona tappa”. Glielo suggerirò, se capita.
La caduta di Porte avviene prima che le immagini della regia internazionale vengano trasmesse dalla TV. Quando finalmente parte la diretta della RAI, a cui sono da sempre affezionato, il tono di voce di Francesco Pancani e di Silvio Martinello è diverso da quello a cui mi ero abituato nell’ultima settimana. La tensione e la frenesia della corsa si fanno sentire. Commentare questa tappa è come cercare di contare le vespe e descriverne le traiettorie di volo dopo averne scosso il nido. Un’impresa quasi titanica. Loro ci riescono bene, ma si capisce che stanno sudando peggio che alle Olimpiadi di Rio.
Suda e impreca, in elegante francese, Romain Bardet: l’idolo ciclistico di un’intera nazione, ripetutamente appiedato da forature. Fin dai primi chilometri. Sarà una tappa da incubo la sua, sempre costretto a rincorrere. I pochi secondi di distacco accumulati al traguardo non rendono l’idea della giornata difficile che ha vissuto. Lui è il vero vincitore morale della frazione odierna.
In fuga dalla partenza ci sono cinque uomini, che poi diventano nove: Fraile, De Gendt, Cousin, Gaudin, Haga, Le Gac, van Rensburg, Edet e Calmejane. Quando mancano 67 km al traguardo hanno ancora due minuti di vantaggio. È in quel momento che la corsa esplode davvero.
Il gruppo sta percorrendo il tratto di pavé numero 12 quando l’ennesima caduta lo frantuma. Una parte dei “big” di classifica resta staccata e il team SKY tenta il forcing per scavare un solco incolmabile. Dietro si annaspa in modo abbastanza disperato per cercare di ricucire lo strappo. L’immagine chiave è quella di Domenico Pozzovivo che sputa l’anima sulle pietre. La bici gli balla sotto come un’amante impazzita. Commovente. Io non tifo per nessuno, mi piace il ciclismo proprio perché non ho mai avuto la forma mentis del tifoso di calcio et similia, ma al “Pozzo” voglio un gran bene: un eterno fanciullo intelligente in un mondo di giganti fisicamente più dotati di lui. Eroe.
Lo strappo viene ricucito quando mancano 60 km al traguardo. Passano pochi minuti e si verifica una caduta clamorosa che coinvolge Froome, Dumoulin, Van Avermaet e altri corridori in testa al gruppo. Sembra poter essere decisiva, ma si rivelerà solo una delle tante di giornata.
Gilbert, Sagan e Gaviria provano ad accendere le polveri. A turno. Ma non vanno lontano.
Quando mancano 37 km al traguardo, la fuga di giornata si sfalda: van Rensburg e Gaudin staccano i compagni di avventura per tentare di reagire al rientro del gruppo. Altre cadute. La sorte peggiore tocca a Rigoberto Uran, secondo al Tour dello scorso anno, che perde molto tempo per sostituire la bici: annasperà insieme alla sua squadra fino al traguardo. Il gruppo riprende la fuga e, dopo l’ultimo traguardo volante, se ne vanno in tre: Lampaert, Van Avermaet e Degenkolb.
Dietro si respira, finalmente. Sagan e Gilbert si controllano. Vai tu a riprenderli o vado io? Non va nessuno.
Eccezion fatta per Lampaert, si profila una sfida tra vincitori della Parigi-Roubaix.
A quel punto non puoi non pensare al calvario vissuto da John Degenkolb, dopo l’incidente subito nel gennaio 2016, a causa di un automobilista imprudente.
Se un dio del ciclismo esiste, oggi deve vincere lui.
E così accade: il ciclismo è, prima di tutto, una questione di fede. Qualunque sia la vostra fede.
Dietro a Degenkolb e ai piazzati, sfila ciò che rimane della corsa. Se ti limiti a guardare i distacchi, potresti quasi pensare che sia stata l’ennesima tappa inutile. O comunque una tappa “deludente”. Se hai visto la corsa, dovresti pensare cose diverse. Non tutti ci riescono: è uno sport difficile da capire e da raccontare.
Domani si riposa, finalmente.
Paolo Bozzuto
(docente di urbanistica al Politecnico di Milano, autore del libro “Pro-cycling Territory“)