25 lug 2018 – Gianni Moscon deve avere tanti amici e tifosi in Francia, soprattutto tra gli agricoltori.
Questo devono aver pensato istintivamente molti appassionati di ciclismo, vedendo la sedicesima tappa del Tour interrotta dopo soli 30 chilometri. Paralizzata da una sorta di blocco stradale fatto di uomini, pecore, balle di fieno e trattori. Quindici minuti di delirio.
La metto volutamente sul ridere, perché c’è da piangere. Del resto, succede sempre quando vengono usati i gas lacrimogeni: si piange anche se non si è tristi. Ci si intristisce dopo, quando gli occhi bruciano.
Gianni Moscon non c’entra, ovviamente: questa volta è innocente. Ma, paradossalmente, sarebbe stato quasi meglio che la “rabbia” della gente lungo la strada fosse legata alla sua esclusione dal Tour o alle dichiarazioni urticanti rilasciate da Sir Dave Brailsford, durante la conferenza stampa organizzata nel giorno di riposo. Sarebbe stata una vicenda comunque brutta, ma almeno istintiva e imprevedibile.
Invece, quello che è successo poco dopo la partenza da Carcassonne lo si poteva immaginare e prevenire, almeno un po’: una quarantina di manifestanti, appartenenti al collettivo “Pour que vive la Piège”, protestano per chiedere il mantenimento dell’Ariège, il loro territorio, tra le “zone svantaggiate” che possono godere di aiuti finanziari dello Stato. È una vicenda che va avanti da tempo. Non è cosa dell’altro ieri.
Le forze dell’ordine intervengono in massa e in modo deciso per sgombrarli dalla strada, facendo abbondante uso di spray lacrimogeni. Invece, sarebbe stato meglio parlamentare con i manifestanti: non solo per ragioni di sensibilità politica e sociale, ma perché il gas, qualunque gas, anche quello lacrimogeno, ha un brutto vizio: è volatile. Si disperde e viaggia nell’aria. E così arriva anche a colpire i corridori del gruppo. Brutti momenti. Per tutti.
Riprendono a correre solo dopo essersi accuratamente lavati gli occhi con l’acqua, ricorrendo addirittura alle cure dei medici, in alcuni casi. Si decide per una neutralizzazione temporanea della tappa: per qualche chilometro, il gruppo sfila dietro la macchina del direttore di corsa.
Non capitava dal 7 luglio 1982 una manifestazione di questa gravità, al Tour. Allora i protagonisti furono i lavoratori delle acciaierie Usinor Denain: riuscirono a impedire la partenza della crono-squadre tra Orchies e Fontaine-au-Pire e la tappa venne addirittura annullata.
Il ciclismo, per la sua natura di sport diffuso nel territorio, che può godere di una rilevante “copertura” da parte dei mass-media, offre un palcoscenico ideale per chi desidera manifestare contro qualcosa. È uno dei motivi per cui lo sport del pedale è sempre stato poco amato dai regimi totalitari e dai dittatori: meglio favorire altre discipline, quelle che consentono di racchiudere (e rinchiudere) il pubblico in uno stadio o in un luogo comunque recintato. Così lo si può controllare meglio.
La storia del ciclismo, anche in anni recenti, è ricca di episodi di protesta lungo il tracciato delle corse: comitati che si oppongono alla realizzazione di un progetto, operai che rischiano il posto di lavoro, eccetera. Fenomeni pacifici, tendenzialmente, che vengono gestiti sapientemente dai diversi “attori” coinvolti: i manifestanti rispettano la competizione e gli atleti; in cambio ricevono visibilità dai media, che veicolano il loro messaggio e le loro istanze. Un gioco a somma positiva.
Oggi non ha funzionato. E non so dire il perché. So solo che tira una brutta aria al Tour: fin dall’inizio, ma da alcuni giorni sta peggiorando.
Dopo la temporanea neutralizzazione, la tappa riparte a velocità folle. Ci sono ancora 188 chilometri da percorrere per arrivare al traguardo di Bagnères-de-Luchon. È pur sempre la seconda frazione più lunga di questa Grande Boucle. E la seconda metà del tracciato propone tre GPM di quelli probanti, in sequenza: Col de Portet d’Aspet, Col de Menté e Col du Portillon.
È una vera tappa di montagna, da Pirenei seri. Forse per questo il gruppo non vuol lasciare andare la fuga. Servono 100 km di corsa e di schermaglie per la formazione del mega-drappello a cui siamo ormai abituati: 47 corridori, quasi un terzo dei partenti. Tra loro, ci sono nomi importanti. Uno su tutti: Philippe Gilbert, che sta interpretando questo Tour in modo generoso, a servizio della squadra oltre che delle proprie legittime ambizioni personali.
Il gruppo molla, non insegue, accumula 10 minuti di ritardo in poche decine di chilometri. Quando si arriva ai piedi del Col de Porte d’Aspet, Gilbert parte all’attacco. Va da solo: è una salita vera, ma non impossibile; non fa paura a un grande uomo da “classiche” come lui.
Julian Alaphilippe e Warren Barguil provano a seguirlo.
Gilbert scollina con quasi un minuto di vantaggio e inizia la discesa. E questa sì che fa paura. E fa piangere, anche senza lacrimogeni. Bisogna transitare davanti alla stele che ricorda Fabio Casartelli, lo sfortunato ragazzo di Como, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Barcellona, che morì qui, in una caduta terribile, il 18 luglio 1995. È uno dei pochi ricordi vividi che ho di un tempo in cui, ancora, non seguivo il ciclismo con attenzione. Quel giorno, per caso, avevo la TV accesa sul Tour mentre facevo finta di studiare per un esame universitario. Mi ricordo tutto. Mi ricordo il corpo di Casartelli rannicchiato sull’asfalto, quasi fosse un bambino che dorme tranquillo con la sua maglia preferita: quella della Motorola. Cerco di non ricordare il sangue, ma è quasi impossibile. Se ho conservato un briciolo di umana simpatia per Lance Armstrong, in tutti questi anni, è soprattutto per il gesto che fece sul traguardo di Limoges, tre giorni dopo, vincendo la tappa. Era sincero. Puoi azzerare o riscrivere gli albi d’oro delle corse, ma certe cose restano, non si cancellano.
Non fai nemmeno in tempo a pensare a quel mare di tragedia, che le onde delle brutte emozioni tornano a colpire come una maledizione: Gilbert prende male una curva. Se ne accorge, sgancia un piede dal pedale, cerca di controllare in qualche modo la traiettoria, ma finisce comunque contro il basso muretto di pietre che delimita il nastro d’asfalto. Vola di sotto. Giù dal tornante. Verso l’ignoto. È il panico assoluto. Dopo minuti infiniti, lo si vede risalire scortato dagli uomini dell’organizzazione. È ferito, soprattutto a una gamba. Lo medicano mentre la TV riprende tutto, per rassicurare. Lui lo capisce. Si rimette in piedi, alza il pollice destro a favore di telecamera, come a dire “tranquilli, è tutto ok”. Torna in bici e riprende la corsa. Si ritirerà solo dopo aver tagliato regolarmente il traguardo. Troppo male. Ciao Pippo Gilbert: curati e ritorna presto!
Passata la paura, si accendono le polveri sul Col de Menté.
Alaphilippe è scatenato. Sogna di portare a Parigi la maglia della Pimpa che ormai ha incollata alla pelle da giorni e giorni. I tredici rimasti in testa alla corsa arrivano al Col du Portillon, ultima ascesa di giornata. Adam Yates va in cerca di gloria. Almeno per un giorno, vuole provare le stesse soddisfazioni che il suo gemello Simon ha raccolto al Giro d’Italia. Scollina per primo e inizia la discesa verso il traguardo. Può farcela davvero, ma scivola. Cade anche lui. Per fortuna in modo non rovinoso, dal punto di vista fisico. Dal punto di vista morale, chissà.
Julian Alaphilippe lo passa proprio mentre Yates sta risalendo in bici. Lo guarda, esita. Poi continua verso la sua seconda vittoria al Tour.
Il gruppo della maglia gialla arriva tranquillo, con un ritardo di quasi 9 minuti.
L’unica sentenza definitiva di giornata è la maglia verde di Peter Sagan: nessuno gliela potrà più sfilare, da qui a Parigi. Dovrà solo resistere alle insidie del percorso.
Sembra un modo di dire, ma non lo è in questo Tour: tira davvero una brutta aria.
Paolo Bozzuto
(docente di urbanistica al Politecnico di Milano, autore del libro “Pro-cycling Territory“)