18 lug 2018 – Hors Catégorie è la locuzione più bella tra le tante che il lessico del ciclismo ha regalato al nostro modo di parlare quotidiano. Quando incontri una donna meravigliosa, quando osservi un paesaggio spettacolare, eccetera, ti viene spontaneo dire: «hors catégorie!». Fuori categoria: qualunque altra esclamazione risulta povera, in confronto. Non rende l’idea.
Il concetto di “categoria” è fondamentale per la storia della filosofia occidentale, da Aristotele a Kant e oltre. Ma anche fermandoci al significato comune e quotidiano del termine, cioè “insieme di cose omogenee”, ci rendiamo conto della sua importanza: ordinare e classificare il mondo, riconoscendo corrispondenze e diversità, è un’esigenza primaria dell’uomo, fin dalle sue origini. Senza categorie saremmo persi, non sapremmo agire nella vita. Per fortuna, ci sono.
Però, come spesso capita con gli strumenti che ci danno stabilità e sicurezza, alla fine tendiamo a diventare dipendenti dalle categorie. Invece di usarle per vivere, finiamo per essere vissuti da loro. Diamo molte cose per scontate. Smettiamo di pensare, di immaginare, di farci delle domande. L’hors catégorie è il momento in cui il mondo torna a scuoterci dal torpore, a dirci che è il caso di rimettere in discussione le nostre comode certezze. Ma non è obbligatorio. Ci si può voltare dall’altra parte e far finta di niente: si può rimuovere l’eccezionale, o l’anomalo, per pigrizia mentale.
Il grande merito del ciclismo e, in particolare, del Tour de France è quello di aver reso impossibile questa rimozione, facendo dell’hors catégorie una vera e propria categoria ufficiale: un paradosso geniale.
Le salite più dure del Tour, quelle che vanno oltre le 4 categorie tradizionalmente istituite (la quarta è la più facile, la prima è la più difficile), quelle in cui originariamente anche le automobili dell’organizzazione facevano fatica a transitare, dal 1979 sono definite Hors Catégorie. Vengono indicate sulle mappe della corsa con un pallino rosso che contiene l’acronimo HC. È il pallino che amo di più. Anche più di quelli che punteggiano la maglia della Pimpa destinata al miglior scalatore.
Oggi, quel pallino fa il suo esordio al Tour del 2018, nella tappa che porterà i corridori da Annecy a Le Grand-Bornand: 158 chilometri, con salite vere.
I cartografi l’hanno piazzato sul Plateau des Glières, un pianoro posto a 1390 metri di altitudine che, per essere raggiunto, impone a tutti quasi 7 km di salita con pendenze probanti: dal 10 al 12 per cento, con un breve tratto di respiro a metà dell’ascesa. La vera anomalia i corridori la troveranno proprio in cima, sul plateau: un tratto di strada sterrata di circa 2 km. Erano trent’anni che la Grand Boucle non viaggiava fuori dall’asfalto e, allora, avvenne per soli 300 metri.
Insomma: c’è profumo di “Eroica” in questo Tour. E l’Eroica, inventata dal mio amico Giancarlo Brocci, che al Tour conoscono bene, è fuori categoria par définition.
Per non farsi mancare nulla, il finale di tappa prevede due GPM di “prima categoria”: il Col de Romme e il Col de La Colombière. Basta guardare il profilo altimetrico dentellato della tappa per capire che siamo entrati in una dimensione diversa, dopo il giorno di riposo.
Se la mia teoria sull’Hors Catégorie ha un senso, oggi deve accadere qualcosa di anomalo. La tappa parte e si intuisce presto che sarà così. Perché, tra mosse e contromosse, tentativi di sortite e appetiti per l’unico traguardo volante di giornata, in fuga si ritrovano in 21. Un esercito, o quasi.
E non ci sono solo eroi di giornata in viaggio verso il nulla, come spesso è capitato durante la prima settimana. Ci sono anche i migliori uomini da “classiche” presenti al Tour, gente che non disdegna gli sprint nelle tappe per velocisti. Gente forte sugli strappi brevi ed esplosivi, ma che non ti aspetti in avanscoperta, in una frazione con questo profilo altimetrico: Alaphilippe, Sagan, Gilbert e Van Avermaet, con la sua maglia gialla, su tutti.
Sagan si aggiudica la posta piena al traguardo volante, consolida il suo primato nella classifica a punti e sembra non essere troppo intenzionato a insistere. Ma gli altri vogliono proseguire. Van Avermaet e Gilbert sono scatenati.
L’esercito dei fuggitivi perde compattezza in discesa dopo il primo GPM. Poi la ritrova, o quasi, lungo l’ascesa al Plateau des Glières. Lì parte Julian Alaphilippe, che conosce le strade per averci vinto una tappa del Tour de l’Avenir nel 2013, quando era un giovane di grandi speranze. Passa per primo sul pianoro e sul tratto sterrato, seguito dal resto della fuga.
A 70 km dal traguardo, il drappello di testa è composto ancora da 18 corridori e ha più di 7 minuti di vantaggio sul gruppo, che viaggia senza dannarsi l’anima. Il team SKY detta un passo sostenuto, ma regolare, che sembra andare bene a tutti, forse perché di meglio non si può proprio fare.
Sul Col de Romme la fuga inizia a sfaldarsi. Taaramäe tenta lo scatto solitario, ma viene raggiunto da Alaphilippe, che supera un momento di difficoltà apparente, scollina per primo, “bomba” la discesa e inizia un assolo entusiasmante che lo porta ad accumulare un vantaggio consistente lungo l’ultima ascesa di giornata, il Col de La Colombière. Dietro di lui ci sono Izagirre e Taaramäe, ma lo rivedranno solo al traguardo.
E dietro di loro, incredibilmente, c’è ancora Greg Van Avermaet, che non ne vuole proprio sapere di mollare la maglia gialla. Non vuole nemmeno difenderla sul filo dei secondi, come tante altre volte abbiamo visto fare. Vuole incrementare il proprio distacco sui veri “big” di classifica. E ci riesce, scavando un piccolo solco tra il proprio primato e il secondo posto della classifica generale, sempre occupato da Geraint Thomas detto “G”. Non servirà a molto, in prospettiva, ma è una prova di carattere che non si vede spesso al Tour: è roba hors catégorie.
E lo stesso si può dire dell’impresa di Julian Alaphilippe, che oggi esce definitivamente dalla categoria “giovani speranze” ed entra in una dimensione nuova come corridore, tutta da esplorare e definire. I francesi trovano un nuovo eroe in cui sperare. Il più sollevato, probabilmente, è Romain Bardet: finalmente può condividere con qualcuno il peso delle aspettative di un’intera nazione, tornata a vincere i Mondiali di calcio, ma ancora in attesa dell’erede di Bernard Hinault: il campionissimo transalpino che conquistò il suo ultimo Tour nel 1985.
Sarà molto difficile per Bardet. Ma ci dovrà provare fin dalla prossima e brevissima, anomala e micidiale, tappa da Albertville a La Rosière: 108 chilometri con un dislivello complessivo brutale.
Hors Catégorie, par excellance.
Paolo Bozzuto
(docente di urbanistica al Politecnico di Milano, autore del libro “Pro-cycling Territory“)