28 lug 2018 – Mistica pirenaica ed effetto placebo.
Servirà ogni risorsa rimasta, in questa diciannovesima tappa del Tour. Perché è l’ultima occasione per tentare qualcosa, per rimettere in discussione una classifica generale che sembra quasi definita nelle posizioni di vertice. Servirebbe un miracolo, probabilmente, per cambiare davvero i rapporti di forza. Ma si parte da Lourdes, la città celebre per le apparizioni mariane e per il santuario: quindi bisogna crederci, bisogna avere fede.
Farà bene a tutti una benedizione, dall’alto, perché si va ad affrontare il “giro della morte”: le salite pirenaiche che hanno scritto la storia del Tour, in sequenza. È una variazione sul tema originale, quella odierna, ma sempre temibile: manca il Col de Peyresourde, scalato l’altro giorno, ma ci sono il Col d’Aspin, il Col du Tourmalet e, in chiusura, il Col d’Aubisque. Poi si arriverà al traguardo di Laruns, piccolo comune del dipartimento dei Pirenei Atlantici, dopo 200 chilometri di corsa. È quasi un circuito dentro al Parco Nazionale dei Pirenei: paesaggi selvaggi e bellissimi.
Si va forte fin dalla partenza. Scatti, schermaglie, primi tentativi seri. L’ormai usuale dinamica, incrementale e cumulativa, di formazione di una fuga numerosa: quasi venti corridori sono in avanscoperta, dopo 35 chilometri, quando il gruppo decide di respirare.
Come sempre, c’è Julian Alaphilippe tra i fuggitivi: la missione Pimpa è quasi conclusa, gli mancano pochi punti per aggiudicarsi matematicamente la maglia del miglior “scalatore”. Decide di esagerare: passa per primo in cima all’Aspin e al Tourmalet. Diventa il primo corridore nella storia a conquistare 4 salite hors catégorie in una singola edizione del Tour.
Peter Sagan, nel frattempo, cerca stoicamente di restare in corsa, attaccato al “gruppetto” dei velocisti: resistere al dolore fisico, dopo i traumi subiti cadendo, due giorni fa, è il suo unico obiettivo. Transita sul Tourmalet con 19 minuti di ritardo dai fuggitivi.
A 65 km dal traguardo, ci sono 11 corridori in testa alla corsa, con tre minuti di vantaggio sul gruppo maglia gialla: Kangert, Nieve, Alaphilippe, Barguil, Jungels, Zakarin, Gorka Izagirre, Amador, Landa, Majka e, soprattutto, Romain Bardet.
Oggi l’eterna speranza dei tifosi francesi cerca l’impresa, dopo aver abbandonato le ambizioni di podio. Tenta una fiammata sul Col des Bordères, ma viene ripreso dai compagni di fuga.
Landa, Bardet, Majka e Zakarin formano un quartetto in testa e cercano di reggere l’urto del gruppetto dei “big” di classifica, che viaggia a una velocità diversa, in vista dell’ultima sfida in salita.
Si arriva al gran finale: bisogna scalare il Col du Soulor, che non è ufficialmente un GPM, ma è cosa seria; poi si deve scendere un po’, prima di attaccare il Col d’Aubisque. Sarà una lunga discesa a portare, infine, al traguardo.
Iniziano gli scatti nel drappello della maglia gialla. Prima parte Steven Kruijswijk, poi ci prova Primož Roglič: l’unico ad avere gambe davvero miracolose, in questo finale di Tour. L’unico a poter tentare di riscrivere la classifica.
Tom Dumoulin e Geraint Thomas non si spaventano e vanno a prenderlo, ma Chris Froome no. Lui proprio non ce la fa. Sembra essere arrivata l’ora di abdicare definitivamente. Rischia di naufragare per la prima volta in tanti anni. E forse gli va bene così: non ne può più, Chris, di questo Tour infernale sul piano umano e psicologico. È accettabile l’idea di scambiare una sconfitta pesante con un po’ di pace. È comunque sereno: la maglia gialla è solidamente sulle spalle di Geraint Thomas, detto “G”, amico e fedele scudiero in tante battaglie vinte.
È questo il momento in cui si verifica un fenomeno inspiegabile, l’ennesimo nella storia di questo territorio mistico.
Non ci sono prove. Nessuno potrà dimostrare scientificamente che sia successo davvero, ma io so che è accaduto: le radioline di Froome e G si sganciano improvvisamente dalla frequenza del team SKY. Nei loro auricolari si inserisce un segnale misterioso che trasmette una canzone dei Placebo: Running Up That Hill, la cover di un vecchio brano di Kate Bush. Meglio dell’originale.
È come un dialogo a distanza tra i due compagni di squadra, che stanno per scambiarsi definitivamente il ruolo di protagonista: «It doesn’t hurt me / Do you want to feel how it feels? / Do you want to know that it doesn’t hurt me? / Do you want to hear about the deal that I’m making?».
Questione di secondi, poi l’interferenza sparisce. Perché davanti a Froome si verifica un’apparizione tanto miracolosa quanto reale: Egan Bernal, il vero motore della SKY in questo Tour, rientra e inizia a macinare strada a favore del suo ex capitano, riportandolo nel gruppo dei “big”. Come se niente fosse accaduto.
Rafal Majka lascia i tre compagni di fuga e se ne va da solo in cerca della vittoria.
Landa, Bardet e Zakarin vengono riassorbiti.
Majka scollina per primo sull’Aubisque. Dietro di lui, il gruppetto dei migliori scala l’ultimo chilometro di salita. Froome ha un nuovo cedimento. Arranca. Sembra nuovamente disposto a crollare.
Ma, improvvisamente, nell’auricolare torna la misteriosa interferenza radio: «It’s you and me / And if I only could / I’d make a deal with God / And I’d get him to swap our places / Be running up that road / Be running up that hill». Come una medicina per lo spirito, quella che non ha bisogno di principi attivi. Effetto Placebo.
Si scuote, Froome. Fa appello alle energie residue. Scollina e sfrutta le sue doti di discesista per rientrare sulla testa della corsa.
Majka viene raggiunto.
Primož Roglič gioca le sue ultime carte: quando mancano 17 km al traguardo, inserisce la modalità kamikaze e trasforma il finale di tappa in una picchiata folle, pericolosissima, verso il traguardo. Per fortuna non sbaglia niente. Ha davvero imparato a correre.
Arriva Primož. Vince con 19 secondi di vantaggio sul drappello della maglia gialla.
G domina lo sprint dei piazzati e incamera qualche secondo di abbuono.
Roglič scalza Froome dal terzo gradino del podio, per una manciata di secondi.
Peter Sagan si salva, arrivando entro il tempo massimo.
La testa di tutti è già alla cronometro di 31 chilometri che metterà fine alla lotta per la classifica generale. Sarà il giorno più importante nella carriera di Geraint Thomas: deve solo evitare guai lungo la strada.
Non lo dice a nessuno, G, ma ha ancora in testa la strana interferenza radio di giornata:
«Tell me we both matter, don’t we? / It’s you and me / You and me won’t be unhappy».
Paolo Bozzuto
(docente di urbanistica al Politecnico di Milano, autore del libro “Pro-cycling Territory“)