20 mag 2018 – Il buio, in bicicletta, va in scena prima di sera. Sono passate da qualche minuto le 16.00 di domenica 20 maggio quando a Fabio Aru scende la sera del morale. Quando parti per vincere e ti trovi senza gambe fa ancora più male se già deve mettere in fila le idee con la fatica che attanaglia. E allora vorresti fermarti e sederti sull’erba a bordo strada. Per rimettere in circolo le idee e respirare un attimo, magari chiudere gli occhi a pensare che è un sogno e non un incubo vero e di cui vorresti dire qualcosa.
Perché quando stai così i metri della strada li conti tutti, li vedi uno per uno e non passano mai. Maledette salite che dovevano essere il paradiso e ora bruciano come il fuoco.
Questa uno-due di salite in due giorni, al termine della seconda settimana, ha lasciato a terra Aru come un pugile suonato, uscito – di fatto – di classifica sullo Zoncolan e poi naufragato definitivamente sulla salita del Passo di Sant’Antonio pian piano affiancato dai suoi compagni di squadra, abbracciato da Ulissi nel momento più difficile, quando aveva messo il piede a terra e aveva già deciso di mollare.
Ci voleva un appoggio morale, oltre a quello dell’ammiraglia, perché nel buio della ragione Fabio Aru stava mettendo i piedi a terra per mollare tutto. Ma uscire così sarebbe stato proprio brutto per lui che al Giro non puntava solo a fare bella figura, non erano un segreto le sue ambizioni di vittoria neanche campate in aria: i numeri li avrebbe.
Cos’è successo allora?
Che il ciclismo non è matematica e per fortuna. È presto ora per trarre conclusioni e stabilire, se mai ci si riuscirà, i motivi di questo affondamento. In questo Giro in cui si è visto umano anche Chris Froome (ha pedalato di nuovo con le streghe oggi, ma tutto sommato va bene pure così, per lui – chissà se pensava davvero di vincerlo – e per tutti, vista la sua situazione imbarazzante dell’UCI) e in cui Yates sta dicendo che si può scattare pure senza farsi troppi conti, stiamo tornando ad ammirare i corridori nella loro interezza di uomini prima di atleti. Un ciclismo che si racconta tutto per lungo, dal primo all’ultimo, da Yates a Chaves, da Dumoulin a Giuseppe Fonzi che difende la sua maglia nera, passando per le impennate di Bennet in salita, la crisi e il riscatto di Viviani e tutti gli altri, volti ogni giorno un po’ più stanchi che non mollano e vogliono finire il Giro perché da una corsa importante non ci si ritira mai.
Peccato solo per quel silenzio dopo l’arrivo. Era per evitare il massacro delle domande? Certo non siamo sugli standard di Chaves.
Le gambe che smettono di girare all’improvviso sono anche di un ciclismo che fa ben sperare e che piace anche di più, meno calcoli e un po’ di improvvisazione. Come ci piace immaginare lo scatto di Yates di oggi, senza neanche ascoltare l’ammiraglia, ma solo le gambe.
Guido P. Rubino