Prologo
Se volete improvvisarvi fotografi sportivi, datevi all’ippica. Davvero. Fotografare un Concorso Ippico non è poi così difficile: la luce è costante, i punti da inquadrare sono evidenziati dagli ostacoli, i cavalli escono uno per volta e il pubblico è ben distante, seduto sulle tribune. Con il minimo sindacale dell’attrezzatura e delle competenze tecniche, potete essere ragionevolmente certi di portare a casa la pagnotta.
Al contrario, fotografare una Tappa del Giro se non si ha la dovuta esperienza, è tutta un’altra faccenda, specie se la tappa si corre nel Centro di Roma in una giornata di sole.
L’arrivo del Giro, quest’anno, coincideva con l’Eroica Montalcino e il Direttore di Cyclinside, che fra le sue molte doti non annovera quella dell’ubiquità, ha dovuto scegliere quale delle due manifestazioni seguire in prima persona. Com’era prevedibile, ha optato per quella in cui si mangia di più e ha chiesto al sottoscritto – costretto a Roma da impegni familiari – se voleva seguire l’arrivo di Roglic e compagni.
«Mi raccomando,» mi aveva detto al telefono, con un tono da Assessore al Traffico «fa’ vedere come sono larghe le strade di Roma, senza auto in sosta» e così, in sella alla mia Brompton in assetto Quarto Potere (GoPro, microfono esterno, power-bank) ho trascorso la mattinata vagando in una Roma bellissima e onirica, circondato solo da pedoni e dai ciclisti che partecipavano alla Pedalata Rosa, un evento gratuito aperto ad adulti e bambini, che si svolgeva su un percorso di 6.8 Km. lungo le strade del Centro.
Alla fine del giro di ricognizione del percorso urbano – lo stesso che avevamo fatto qualche tempo fa per verificare le condizioni dell’asfalto – incontro un signore non proprio giovanissimo con una bellissima De Rosa degli anni ’80’.
«Con una bicicletta così bella,» gli chiedo «come mai non è a Montalcino all’Eroica?»
«Perché la bicicletta è bella,» risponde lui, allontandosi con un sorriso triste «ma le gambe, no.»
Con l’umore galvanizzato da questo interludio in stile Italo Svevo, decido di rientrare a casa, dove faccio la seconda doccia della giornata e prendo accordi telefonici con Alessandra Bucci, una giornalista extra-comunitaria (lavora nella redazione londinese di Rouleur), per andare a fotografare i sei passaggi del circuito cittadino.
La gara
Raggiungo Alessandra verso le 15:30 a via di San Gregorio e ci incamminiamo insieme verso il Circo Massimo. Ci appostiamo in cima all’unica, relativa, salita del percorso urbano: il tratto che dalla Bocca della Verità porta a piazza Ugo La Malfa.
Un pubblico eterogeneo affolla il lato destro della strada; sono tutti seduti sul marciapiede e vengono ciclicamente rimandati indietro dagli addetti alla sorveglianza, come la sabbia sulla battigia. In cima alla salita ci sono un paio di macchine delle squadre, più in là, un furgone che vende bibite con ricarichi prossimi al 500%.
Mentre Alessandra, con raffinate tecniche di social-engineering, irretisce una coppia di pensionati, allo scopo di farsi regalare una delle manone rosa della Toyota, io cerco di farmi un’idea della situazione. E la situazione, malgrado il colore dominante di cappellini, ombrelli e accessori in genere, non è per niente rosea.
Lungo la strada si alternano tratti marcati di luce e di ombra, cosa che rende impossibile l’utilizzo di qualsivolglia automatismo per la messa a fuoco o l’esposizione delle foto. Inoltre, è ragionevole aspettarsi che il pubblico si sporgerà in avanti all’arrivo dei corridori, creando problemi all’inquadratura. Decido perciò di lasciare Alessandra con i suoi genitori adottivi sul lato destro della strada e vado ad appostarmi davanti alle automobili sul lato opposto della strada, leggermente a valle delle ammiraglie. Avrò il sole un po’ più in faccia, ma molte meno persone intorno.
Nel mio immaginario collettivo, mi illudo che i corridori passeranno sul lato destro della strada, così mi metto bello comodo, seduto per terra, e piazzo la GoPro sul treppiede giusto davanti a me, in modo da riprendere il passaggio dei ciclisti. Sfortunatamente, però, non tengo conto del fatto che alcuni addetti delle squadre si sono messi in mezzo alla strada per porgere le borracce ai loro corridori e questo fa sì che il gruppo, invece di darmi retta e passare a destra, si incanali improvvidamente in uno spazio di circa tre metri fra gli idrofori e il nostro gruppetto di scudi umani.
Mi piacerebbe descrivervi le molteplici sensazioni che si provano nell’attesa beckettiana dell’arrivo dei corridori, la trepidazione quasi infantile quando si sente il rumore dell’elicottero che si avvicina, ma tutto questo – credetemi – è nulla rispetto alla strizza fottuta che si prova quando più di cento persone ti passano a pochi centimetri a cinquanta all’ora.
È un po’ come essere giusto sulla linea gialla mentre passa un Frecciarossa, con la sottile differenza che, in questo caso, se il “treno” ti colpisce: a) si incazza tipo Maiorca a Sorrento nel ’74; b) fai una figura di merda in Eurovisione. E io, questo rischio, lo corro davvero, perché, anche se sono rispettosamente all’interno della linea bianca che segna l’area riservata al pubblico, la squadra della Jumbo-Visma mi passa vicinissima e faccio appena in tempo a tirarmi indietro prima di diventare il Bottesini del Terzo Millennio. La mia Go-Pro non è altrettanto lesta di riflessi e viene sbalzata qualche metro più in là, per fortuna senza conseguenze né per lei né per l’investitore.
Il grande fotografo Robert Capa disse che:
Se la foto non è venuta bene, significa che non eri abbastanza vicino.
Domenica ho imparato che questo non è sempre vero o, quanto meno, che abbastanza non deve mai diventare troppo vicino.
A ogni modo, il mio primo contatto con il Giro mi ricorda molto la prima volta che ho fatto sesso: pochi secondi ed è tutto finito. Per fortuna che ci sono altri cinque passaggi, altrimenti avrei fatto solo due foto, una delle quali – per altro – testimonia l’evidente disprezzo di Sepp Kruss nei miei confronti.
Lascio passare la carovana delle ammiraglie, poi raggiungo Alessandra e torniamo indietro verso il Colosseo. Il circuito urbano è lungo poco meno di diciotto chilometri, quindi abbiamo circa venti minuti prima del prossimo passaggio. Affrettiamo il passo.
La nostra idea è di rinculare progressivamente verso l’arrivo, perciò, per il secondo passaggio, ci appostiamo sul cordolo spartitraffico a metà di via di San Gregorio. La corsa arriverà da piazza di Porta Capena, circa duecento metri più in là, cosa che ci darà un po’ più di agio per scattare le foto.
Come ho scoperto nel mio giro mattutino, nelle rotaie del tram che attraversano la curva sono stati premurosamente inseriti dei tubi di gomma, coperti poi da nastro adesivo, per evitare che ai corridori càpiti la stessa cosa che successe a me la prima volta che uscii con la Brompton.
Ça va sans dire, appena ci sistemiamo in quella che ci sembra la posizione migliore, una ragazza davanti a noi srotola uno striscione rosso con su scritte delle formule propiziatorie in Sumero e si piazza sbarazzina davanti al cordolo, nascondendoci la curva di ingresso della corsa. La cosa, però, non ci causa grosso fastidio perché, dopo l’episodio della GoPro, i corridori hanno capito che sono pericoloso e si tengono prudentemente a distanza, sfrecciando sul lato sinistro della strada.
Il gruppo, adesso, è meno compatto e ci mette un po’ di più a passare. L’assenza di un rischio immanente per la mia incolumità fisica mi permette di notare che i ciclisti sono quasi tutti dei ragazzini. Guardandoli in televisione, con casco e occhialoni, non te ne rendi conto, ma quano li vedi da vicino ti accorgi che sono proprio giovani giovani – o, forse, sei tu che stai invecchiando, come il signore della De Rosa.
Il terzo passaggio del gruppo ci trova ai piedi della salita che porta prima al Colosseo e poi a via dei Fori Imperiali. È una posizione buona, con luce laterale e vista frontale su tutta via di San Gregorio, cosa che mi permette di scattare delle foto tutto sommato decenti senza rischiare la vita.
Uno degli addetti alla sorveglianza raccoglie da terra una borraccia e la regala a un bambino che sta guardando la corsa insieme a suo padre. Sulla borraccia c’è la lettera “M”, che potrebbe essere: malto-destrine, ma anche: Mabuse o: motte cetta. Per non correre rischi, il brav’uomo dice:
«Mi raccomando: non bere quello che c’è dentro, se no, domani mattina ti svegli alto come tuo papà e con la voce della tua mamma.»
Passata la transumanza di mezzi a propulsione muscolare e/o meccanica io e Alessandra riprendiamo il nostro percorso a ritroso verso il traguardo. Io sto meditando su quello che mi sembra uno dei più grandi misteri della Fisica moderna, ovvero:
Come fanno, le auto e le moto che precedono il gruppo, ad andare a una velocità doppia rispetto ai ciclisti senza lasciarli indietro o doppiarli?
e non mi accorgo che la mia amica è passata sull’altro lato della strada fino a quando non è troppo tardi perché le transenne mi impediscono di attraversare e di raggiungerla. Così, restiamo divisi come Totò e Peppino a Berlino; lei sul lato del Colosseo e io su quello del Celio.
Proseguo in mezzo alla folla fino all’incrocio con via Labicana, ma a mano a mano che mi avvicino al traguardo il pubblico diventa sempre più numeroso. Vorrei tornare indietro, ma ho perso troppo tempo e il gruppo sta per arrivare. Cerco un varco nella folla che si assiepa lungo le transenne e l’unico che trovo è in una posizione infelice, con il sole dritto in faccia che riflette sull’asfalto; in compenso, però, sullo sfondo è ben visibile l’area archeologica intorno all’Arco di Costantino (che è tipo l’Arc de Triomphe, ma che è stato costruito millecinquecento anni prima..)
Il quinto passaggio, non mi frega, lo aspetto di nuovo in fondo a via di San Gregorio. L’ansia dei primi giri è passata e il bambino della borraccia è ancora vivo, anche se – curiosamente – gli sono diventate pelose le mani. Mi rilasso e scatto qualche foto al pubblico, che può sempre servire.
Continuo a non capire chi sia in testa alla corsa, ma non importa: me lo spiegheranno Guido o Alessandra alla fine.
Dopo il passaggio degli ultimi ritardatari, fra gli astanti serpegga l’incertezza. Qualcuno dice che è finita, altri ipotizzano un numero di giri immaginifico, io ho un momento di incertezza e conto mentalmente i passaggi che ho visto fino ad allora: uno, due, tre, quattro, cinque.. I giri sono sei, quindi ce ne dovrebbe essere un altro. Il fatto che il maxi-schermo faccia vedere la campana dell’ultimo giro mi conforta nella mia tesi, così cerco un nuovo appostamento per l’ultima serie di foto.
Sul lato destro della strada c’è l’area ospitalità della Oakley. Arredamento elegante, ospiti eleganti, molti in giacca. Io sono vestito che sembro uno che monta le giostre, ma ho un super-potere: l’educazione. Spiegando che, anche se non sembra, faccio parte della Stampa, chiedo garbatamente se possono ospitarmi e loro, altrettanto garbatamente, allargano uno spazio fra le transenne e mi fanno entrare.
Nella speranza di rimediare un bicchiere di Franciacorta, mando un messaggio al mio Direttore:
Chi conosciamo in Oakley?
Mentre cambio obiettivo, arriva la sua risposta:
perché?
Non ho tempo di spiegargli le mie aspirazioni alcoliche, perché sento il ronzio dell’elicottero e devo appostarmi dietro alla transenna.
Quando il gruppo compare all’orizzonte, sembra la mandria di bisonti che carica la carovana dei coloni nei film Western. Il gruppetto di fuggitivi è stato ripreso e adesso sono tutti quanti insieme, che tirano come se non ci fosse un domani e, in effetti, un domani non c’è, perché fra poche centinaia di metri sarà tutto finito. Mentre mi passano davanti, tengo il dito pigiato sul bottone della Nikon che, con abnegazione nipponica, spreme fino all’ultimo la sua batteria e si spegne solo dopo aver compiuto il suo dovere.
Seppellisco la Nikon nello zaino e prendo la Leica per fotografare il gruppetto di coda. Quando anche l’ultimo corridore è sfilato via fra gli applausi di incoraggiamento del pubblico, raduno le mie cose e vado a ringraziare dell’ospitalità il responsabile della Oakley.Nel mio immaginario collettivo (che, come forse avrete capito, ha lo stesso grado di distacco dalla realtà della sceneggiatura di film porno) lui, vedendomi, avrebbe dovuto dire: Ma no, resti con noi! beva un bicchiere di vino, così parliamo della pubblicità che voglio affidare alla vostra testata; questo però non avviene e così, sobrio come un mormone, non posso far altro che incamminarmi verso l’auto, che ho lasciata parcheggiata ai limiti della zona interdetta al traffico.
Epilogo
Sono passate da poco le sette di sera e c’è una luce bellissima. Roma, che in tutti i pomeriggi questo sfortunato mese di Maggio 2023 ci ha regalato un acquazzone, stasera nun fa la stupida e ha mostrato al Mondo quanto può essere bella, se solo gliene offrono la possibilità.
Amo questa città, malgrado tutti i suoi problemi, così come si ama una famiglia malgrado i parenti un po’ coglioni. E amo anche questo mondo, del quale faccio parte da poco, ma che ha cambiato così tanto e così in meglio la mia vita. Amo queste persone pulite ed educate – mes semblables, mes frères – che non si picchiano fra di loro, che applaudono anche l’ultimo in classifica e che non compiono atti vandalici. Tutt’al più, scrivono sull’asfalto: Tenete duro, che in cima c’è la figa, ma sarete d’accordo con me che questo non è vandalismo, è poesia.
In cima alla salita che costeggia il Colosseo, prima della curva che porta sul rettilineo dell’arrivo, c’è un gruppo di persone – qualcuna a piedi, molte in bicicletta – che aspetta gli atleti che vanno via dopo l’arrivo. Salutano e applaudono tutti, indipendentemente dalla squadra o dalla nazionalità, specie se si tratta di Lawrence Warbasse che trasporta sulla sua bicicletta una graziosa fanciulla ferita a un ginocchio. Nessuno di loro, ne sono certo, si sognerebbe mai di insultare un giudice di gara o di recriminare per decennii sull’esito di un foto-finish (‘O sprint de Pantani era bbono..).
Ciclismo ed equitazione sono sport piuttosto differenti per storia, tipo di prestazione e per costi (una bicicletta, ormai, costa più di un purosangue), ma quello che ha assistito all’arrivo del Giro a Roma è lo stesso tipo di pubblico che c’era il giorno prima al Concorso Ippico di Piazza di Siena: rispettoso e sportivo nella migliore accezione del termine. Stando così le cose, si potrebbe pensare che il problema del tifo possa essere legato alle squadre, che implicano inevitabilemte una certa dose di campanilismo, mentre gli sport individuali facilitano l’empatia con l’atleta, ma basta pensare alla bonomia del pubblico del Rugby per capire che la violenza cosiddetta “sportiva” non è un problema numerico, bensì culturale, nel senso letterale di: cosa coltivata.
Non fraintendetemi: non voglio dire che chiunque tifi per una squadra di calcio sia un teppista: conosco molte persone per bene che sono anche dei tifosi sfegatati; per alcuni di loro provo anche stima e affetto, ma al momento, le uniche curve da cui ho voglia di assistere a una manifestazione sportiva sono quelle di una strada.