22 apr 2017 – Non ho mai conosciuto Michele Scarponi, di persona. Quindi non ho il diritto di parlare delle sue qualità umane: quello spetta solo ai suoi familiari, ai suoi amici e a chi ha vissuto e lavorato con lui nel mondo del ciclismo. Non voglio nemmeno parlare delle sue qualità sportive e delle sue vittorie, che invece conosco: tanti bravi cronisti e opinionisti le hanno già raccontate e continueranno giustamente a ricordarle, in futuro, meglio di quanto saprei fare io.
Da semplice appassionato di ciclismo, voglio solo dire che mi piaceva un sacco veder correre Michele Scarponi, amavo il suo modo di stare in bici e giù dalla bici: il suo modo di essere sempre umano e brillante, dissacrante e gentile, nelle interviste. Adoravo i suoi video con il pappagallo Frankie. Riuscivano a mettermi di buon umore anche quando ero incavolato per i fatti miei. So che mi mancherà Michele Scarponi. Mancherà a tantissimi appassionati di ciclismo.
In questo preciso momento ho però la necessità di capire con me stesso perché la notizia della sua scomparsa mi abbia toccato così tanto. Normalmente non sono una persona avvezza alla facile commozione, men che meno alla condivisone pubblica, social, delle emozioni. Ma adesso accade e conosco un solo modo per riordinare le idee e far chiarezza con me stesso, nella vita: scrivere.
La prima ragione per cui la tragedia di Scarponi mi ha toccato credo risieda nel palesarsi di una incredibile “sfortuna”, condizione che nella vita esiste come dimensione relativa: lo stesso fatto, accadimento, tragedia, può colpirti e colpire i tuoi cari in momenti e situazioni diverse. Alcuni momenti e situazioni rendono quello stesso fatto, accadimento o tragedia ancora più insopportabile di quanto già non sarebbe. È inaccettabile che Michele Scarponi sia morto proprio sulle strade su cui pedalava e si allenava da una vita, poche ore dopo essere rientrato a casa da un Tour of the Alps che lo aveva visto tornare alla vittoria, poche ore dopo aver riabbracciato sua moglie e i suoi figli, a pochi giorni dall’esordio nella centesima edizione del Giro d’Italia, dove sarebbe tornato a correre da “capitano” dopo anni passati a svolgere un meraviglioso ruolo da “luogotente esperto” (potrei dire “gregario di lusso”, ma non si può usare la parola “gregario” per un campione come Michele Scarponi). Tutto ciò rappresenta un aggravio della tragedia, che non si riesce a concepire.
La seconda ragione è l’assurdità di questo accadimento. Michele Scarponi era uno straordinario bike handler, come tanti altri ciclisti professionisti: uno che pedalava divinamente e per il quale la bici rappresentava una naturale estensione del corpo. Uno come Michele Scarponi non può morire in bici e – se proprio il destino gli vuole riservare questa sorte tragica – allora dovrebbe accadere in corsa, non in allenamento sulle strade di casa, per colpa di un volgare furgone o di un’automobile qualunque. La morte di Michele Scarponi è la drammatica misura dei pericoli insensati che ogni pedalatore (dal ciclista professionista al semplice pendolare della mobilità sostenibile) fronteggia in Italia quando inforca una bicicletta. Se è capitato a un grande come lui, a uno scarso cronico come me potrebbe capitare ogni volta che metto il naso fuori di casa. È uno dei motivi per cui pedalo poco, purtroppo. Forse la sua morte servirà a risvegliare l’attenzione mediatica e il “discorso pubblico” italiano sui temi della sicurezza stradale per i ciclisti; forse servirà ad accelerare i tempi legislativi sulle norme attualmente in discussione; forse risveglierà dal torpore qualche automobilista, che prenderà coscienza del fatto di non essere l’unico soggetto titolato a usare le strade italiane. Non lo so.
La terza ragione sta in una riflessione che ho fatto da tempo ma che non avevo mai osato mettere “nero su bianco”. A spingermi a esplicitarla è un post, sincero e problematico, scritto oggi da Giovanni Visconti su Facebook. Non conosco nemmeno il “Visco” di persona, ma seguo da sempre la sua carriera e mi piace, quando riesco, interloquire con lui via social media. Oltre all’inevitabile dolore, dopo la morte di Michele Scarponi, il Visco si pone una domanda pesantissima: noi ciclisti professionisti, sempre esposti a rischi così grandi, in corsa e in allenamento, siamo degli egoisti nei confronti delle nostre famiglie? Anteponiamo i nostri sogni di gloria sportiva agli affetti più cari?
Anche in questo caso, io non ho il diritto di esprimere un’opinione in merito all’interrogativo che il Visco si è posto, ma apprezzo molto il suo coraggio e la sua onestà intellettuale e devo quindi – necessariamente – girare la domanda su me stesso. E la domanda diventa questa: noi semplici appassionati di ciclismo, noi che seguiamo le corse, noi che passiamo ore davanti alla TV a leggere le situazioni tattiche, l’evoluzione della competizione, le azioni dei corridori, non siamo forse degli egoisti?
Noi che leggiamo i libri di ciclismo, noi che guardiamo i filmati d’archivio, noi che involontariamente godiamo dell’epica che inesorabilmente nasce quando le condizioni di gara diventano estreme (pendenze proibitive, discese pericolose, pioggia, neve, freddo, vento, ventagli, ecc.) cosa siamo?
L’unica risposta parziale che riesco a darmi – per non sentirmi in colpa – è che anche noi, semplici appassionati, siamo parte di un rito collettivo che ci accomuna ai corridori e agli altri “addetti ai lavori” del ciclismo.
Il ciclismo è uno sport unico, diverso da tutti gli altri. Il ciclismo è “mitologia” contemporanea, come aveva felicemente capito Roland Barthes, ma è anche l’unica forma attualizzata della mitologia classica: quella della “tragedia” greca. E lo è da sempre.
Detto in estrema sintesi: il ciclismo è come un “dio” greco e i corridori sono “eroi”, cioè l’anello di congiunzione tra l’essere un comune mortale irrilevante (come me) e la divinità.
La corsa e la strada sono “muse”: figlie di Mnemosine, dea della memoria.
La corsa è come “Clio”, musa della storia. La strada, invece, è “Melpomene”: la musa della tragedia.
Nella tragedia greca, gli eroi trionfano, gli eroi soccombono, gli eroi – a volte – muoiono.
Oggi, sulla strada, è morto Michele Scarponi che per me era e rimarrà un “eroe” in senso classico, senza nessuna enfasi retorica.
Lo scopo primo della tragedia greca, notoriamente, era quello di svolgere una funzione pedagogica a favore degli uomini comuni. Mi sforzo di credere, mi costringo a sperare, che la morte di Michele Scarponi riuscirà a insegnare qualcosa, a cambiare qualcosa a beneficio dei tanti ciclisti e semplici pedalatori che ogni giorno scendono in strada, in Italia.
Resterà comunque un tributo terribile.
Paolo Bozzuto
(docente di urbanistica al Politecnico di Milano, autore del libro “Pro-cycling Territory“)
vola capitano,lassu aquila,sulla salita piu’ trionfale di tutte,penso che ci hai fatto un altro scherzo e sarai in gruppo al giro e davanti a tutti alla fine. Non smetto di pensarti,di pensare a chi dal alto ti ha voluto al fianco come gregario “il migliore” per umilta’,bonta’, intelligenza di saper dare il giusto peso alle cose,simpatia,valore fisico e umano. quando vincevi vinceva tutto questo e altro. te ne sei andato da campione col tuo sorriso ironico,la sorte non ti ha dato tempo di soffrire ma della felicita’di aver vinto di aver salutato i tuoi cari e nella testa la missione di capitano di vita di umilta’ generosita’ e schiettezza che serva a tutti sportivi e non….Grazie Michele