26 lug 2018 – Come un romanzo breve.
Per un istante ho sperato nell’intervento del commissario Jean-Baptiste Adamsberg, lo stralunato e geniale investigatore creato dalla “penna” di Fred Vargas: l’ultimo grande personaggio della letteratura polar francese. Vive a Parigi, Adamsberg, ma è cresciuto nei Pirenei. Magari è tornato al borgo natio per seguire le ultime tappe di questo Tour. Chissà. Tutto può essere: si tratta pur sempre di narrativa “gialla”.
Ho pensato che il commissario avrebbe potuto scoprire e punire il burlone che, sull’asfalto di Bagnères-de-Luchon, ha disegnato una griglia di partenza come quelle tipiche della MotoGP. Che scherzo di cattivo gusto, dannoso per l’immagine del ciclismo!
Poi, però, ho capito che non era una burla. Era un’iniziativa ufficiale. E ho iniziato a deprimermi. Perché puoi accettare una tappa di soli 65 chilometri, puoi anche digerire le “griglie” da Granfondo, ma, quando vedi il sito web del Tour scrivere con orgoglio «una partenza in stile Formula 1», allora non sai più cosa dire. O forse lo sai, ma è meglio non farlo pubblicamente.
Si parte così, in modo farsesco, per una frazione cortissima destinata a riscrivere la classifica generale del Tour: un concentrato di salite asfissianti. Si scala subito il Col de Peyresourde, poi si sale ancora fino al Montée de Peyragudes (GPM di prima categoria), poi si scende, si passa per il traguardo volante di Lodenvielle, e si torna a salire: Col de Val Louron (prima categoria). Si scende ancora e si affronta l’inedito e un po’ misterioso Col du Portet, che ospita il traguardo. È il Souvenir Henri Desgrange di questo Tour: la cima più alta (2.215 metri).
Pronti, via: il gruppo si riunisce nell’arco di cento metri, vanificando subito la sceneggiata organizzata in partenza. Iniziano gli scatti degli aspiranti fuggitivi. Schermaglie varie da cui emerge, come eroe solitario, Tanel Kangert. Dietro di lui si sgrana un rosario di tentativi. C’è chi rimbalza e chi riesce a rimanere in avanscoperta.
Julian Alaphilippe è in missione Pimpa, come ogni giorno: vuole i punti dei GPM per conservare e consolidare il suo primato nella classifica della maillot à pois. Insegue Kangert con determinazione.
È nuovo l’asfalto nel breve tratto di salita tra Peyresourde e Peyragudes: le divise dei corridori si stagliano sullo sfondo scuro e danno un tocco di colore acceso a una tappa la cui tavolozza varia dal verde cupo dei prati al grigio della nebbia. Ed è una novità piacevole, dopo le infinite giornate di sole accecante vissute in queste settimane di corsa. La regia televisiva se ne accorge e, pochi minuti dopo, quando Kangert scollina, manda un elicottero a fare una panoramica mozzafiato dei tornanti della discesa.
Alaphilippe viene raggiunto da Durasek: insieme, rientrano su Kangert poco prima del traguardo intermedio di Lodenvielle.
Nonostante le griglie in partenza e il chilometraggio da categoria “allievi”, sembra una tappa come mille altre: un terzetto in fuga per la vittoria, gente sparsa che li insegue senza troppe speranze, poi il gruppo dei “big” di classifica, che ha già accumulato tre minuti di distacco. Nessuno scontro diretto tra i pretendenti alla vittoria finale del Tour. Si capisce che la vera sfida ci sarà solo sull’ultima e inedita salita: come fosse un tappone pirenaico classico. Tanto rumore per nulla.
Ai piedi del Col du Portet, Durasek cede e rientra nei ranghi. Proseguono Alaphilippe e Kangert. Poi Alaphilippe ha un momento di lucidità: guarda la sua amata maglia della Pimpa e capisce che è meglio desistere. È più saggio conservare le energie per le ultime tappe, per andare ancora alla caccia di punti preziosi, piuttosto che spremersi su un terreno ignoto e pericoloso. Inizia a rallentare il passo.
Kangert ricomincia una fuga solitaria. Ha 2 minuti e 40 secondi di vantaggio sul gruppo della maglia gialla. Non è poco, ma nemmeno molto. Può solo provarci e vedere come andrà a finire. Sembra davvero un fallimento totale, questa tappa corta e grigliata, che avrebbe dovuto produrre meraviglie agonistiche mai viste. Mancano 15 km al traguardo e, ancora, non è successo nulla.
Ma a quel punto accade l’impensabile, nel gruppo dei “big” di classifica: attacca Nairo Quintana. Un evento raro come le eclissi di sole. Ti viene quasi da credere che sia stato Prudhomme, il direttore del Tour, a sollecitarlo cortesemente, per movimentare una corsa deludente come poche.
Nairo va, con la sua solita espressione imperscrutabile. Personaggio perfetto per un romanzo poliziesco di Fred Vargas: il possibile colpevole che, alla fine, risulta sempre innocente.
Solo Daniel Martin prova a seguirlo, ma fatica a prendergli la ruota. Resta a distanza.
Nessun altro si scompone, nel gruppo della maglia gialla.
Poi attacca Primož Roglič e, finalmente, inizia la corsa che tutti volevano.
Chris Froome scatta per andare a prenderlo, mentre Geraint Thomas, detto “G”, resta a marcare l’avversario più pericoloso per il team SKY: Tom Dumoulin.
Sembra il palesarsi di un copione già scritto, ma tenuto gelosamente nel cassetto per settimane. Come un romanzo poliziesco di cui tutti hanno intuito il finale, ma che si è voluto nascondere a lungo, per non deludere troppo il pubblico: Froome che approfitta di un’azione altrui per liberarsi dei vincoli di squadra e andare alla conquista della maglia gialla di G.
Ma Dumoulin ricuce lo strappo. Tornano tutti insieme.
Quintana riprende Kangert quando mancano 8 km alla vetta. Il fuggitivo di giornata si spegne subito. La regia stacca dai corridori e regala panorami. È bellissima questa montagna verde e grigia, immersa nella nebbia, con una strada stretta ben disegnata, asfaltata di recente, che taglia il crinale senza rompere l’armonia di forme e colori.
Lungo un tornante staziona un tifoso vestito da uomo delle caverne: pelliccia leopardata e grande osso di plastica in mano, come fosse una clava. Fa talmente ridere, nel bene e nel male, che quasi ti manca il fiato. Anche Bardet lo guarda, per un istante, ed è la sua fine: inizia a staccarsi dagli altri “big”, i pochi rimasti. Inizia ad affondare.
Quintana vola verso la vittoria, seguito a distanza da Daniel Martin.
Nel gruppo della maglia gialla si susseguono gli scatti, senza troppa convinzione. Chris Froome fa l’elastico. Parla alla radio. Io lo vedo un po’ stanco da alcuni giorni, ma sono uno dei pochi a non crederlo solido.
Molti si aspettano la “frullata” finale, ma servirebbe di nuovo lo scatto di un rivale vero. Perché ormai mancano 2 km al traguardo e una verità da scoprire ci deve pur essere, in questo strano romanzo breve che stiamo vivendo.
E la verità arriva, implacabile: attacca Dumoulin. Thomas e Roglič lo seguono. Froome si pianta. Non riesce a reagire.
È la vera svolta del Tour. È il momento di G, finalmente libero dai legami di amicizia e simpatia sincera che da anni lo legano a Froome. Legami che l’hanno condizionato in queste settimane, più di quanto si sia visto pubblicamente.
Come il Prometheus Unbound di Percy B. Shelley, Geraint Thomas si scatena. Fulmina tutti e chiude la tappa al terzo posto, accumulando ulteriore vantaggio in classifica generale.
Solo la sfortuna separa ormai G dal diventare il nuovo Wiggo: un pistard di eccellenza assoluta capace di trasformarsi in un vincitore del Tour de France. Lo sa anche lui, tante volte vittima della sorte avversa quando indossava una maglia da leader. Dovrà correre con la massima concentrazione da qui a Parigi.
Paolo Bozzuto
(docente di urbanistica al Politecnico di Milano, autore del libro “Pro-cycling Territory“)