28 lug 2018 – Succede tutto alle 3:45 pm. Ora di Cardiff.
È il momento in cui Geraint Thomas, detto “G”, vince la sfida più importante del Tour e della sua intera carriera su strada: quella contro la sfiga.
Affronta una curva a gomito, complicata da uno spartitraffico, nel centro di Ustaritz. La ruota posteriore gli slitta. La bici si imbizzarrisce. Controllarla è quasi impossibile, col rapportone che sta spingendo. Ma lui ci riesce.
E va…
Si può respirare e tornare indietro di qualche ora.
Il Tour si trasferisce nel Paese Basco, che non esiste ufficialmente. Una nazione ideale divisa tra Spagna e Francia, fondata sulla lingua di un popolo, non sui confini politici e amministrativi degli Stati. È una storia di autonomia richiesta, rivendicata e negata, quella dei Baschi. In Spagna è stata anche una vicenda di terribile violenza, nei decenni passati.
Almeno nel ciclismo, è stata solo una bella esperienza, finché è durata: quella della Euskaltel, formazione professionistica attiva dal 1994 al 2013. Nel ventennio che ha portato alla definitiva globalizzazione delle corse e dei corridori, la caratteristica maglia arancione della Euskaltel è stata offerta solo ai ciclisti di origine basca (spagnoli o francesi). Scelta criticabile, se si vuole, ma strabiliante dal punto di vista dei risultati sportivi ottenuti: una fucina di campioni, partendo da una base potenziale davvero esigua. Solo nell’ultimo anno di attività vennero ingaggiati atleti “stranieri”.
Ci sono corridori dell’ultima Euskaltel ancora in gara, oggi, in questo Tour che si avvia alla conclusione: Ion Izagirre, Gorka Izagirre, Mikel Landa, Mikel Nieve, tanto per fare dei nomi. Bastano per comprendere quanto l’eredità di quella peculiare formazione continui a vivere nel ciclismo attuale, dispersa in tante squadre diverse e poliglotte.
Disbanded è il termine inglese usato, nel lessico internazionale dello sport, per indicare una formazione che si scioglie. Tra ventiquattr’ore, o poco più, capiterà anche al gruppo dei partecipanti a questa edizione della Grande Boucle. Ancora due tappe per arrivare all’ultimo sprint e alla passerella finale sugli Champs-Élysées di Parigi.
Oggi c’è una cronometro individuale da correre, ma è come la Vigilia di Natale: per molti il lavoro vero, quello duro, è già finito. Solo gli uomini di classifica dovranno dare tutto, ancora una volta. Ma loro ambiscono ai “regali” più preziosi, quindi è giusto così.
Il percorso non è agevole: 31 km molto mossi, con una salita finale, a tremila metri dal traguardo, caratterizzata da pendenze che superano il 10 percento. È il Col de Pinodieta: 900 metri di strada asfissiante.
Si va da Saint-Pée-sur-Nivelle a Espelette, cittadina di duemila anime famosa in tutto il mondo per il suo eccezionale peperoncino rosso: AOC è l’acronimo che i francesi usano per dire “denominazione di origine controllata”.
Oggi possiamo assumerlo anche per: arrendersi o combattere?
È la domanda che si stanno ponendo tutti i corridori che stazionano a ridosso o dentro la top ten della classifica generale e che non hanno doti da cronoman. Perché finire il Tour tra i primi dieci fa tutta la differenza del mondo, per il curriculum di un corridore.
È la domanda che si sta ponendo anche Chris Froome, scalzato ieri sera dal podio da Primož Roglič: secondo molti, bookmakers e opinionisti, il vero favorito della frazione odierna.
Cosa sia una cronometro, cosa significhi correre “con” e non “contro” il tempo, l’ho già spiegato in occasione della terza tappa. Non vi annoio ulteriormente.
Potrei però aggiungere che in una crono individuale, alla fine di una grande corsa a tappe, contano le energie residue, più che le abilità specifiche. Ma ve lo ripetono tutti, da giorni: a me cantare nel coro risulta sempre difficile, non mi riesce bene.
Le partenze si susseguono a Saint-Pée-sur-Nivelle: cadenzate, con l’usuale ordine inverso. Il tempo passa e passano i tempi registrati dal cronometro.
Michał Kwiatkowski, un corridore fenomenale che al Tour fa sempre il gregario per il team SKY, si accomoda sulla hot seat: il trono temporaneo destinato a chi fa segnare il miglior risultato. Si piazza lì e aspetta che qualcuno faccia meglio di lui. Sperando che nessuno ci riesca.
Arriva il momento della partenza dei “big” di classifica.
Sfilano uno dopo l’altro.
Parte penultimo Tom Dumoulin, campione del mondo in carica della specialità. Ha un cassetto dell’armadio pieno di body aerodinamici, con i colori dell’iride, a casa. La sua squadra ne ha un intero baule. Ma, stando a quanto si dice, nessuno ha pensato di portarli. Pare che gliene abbiano cucito uno nuovo all’ultimo momento. Chissà se è vero.
L’unica certezza è che alle 16:30, orario ufficiale RAI, parte G, di giallo vestito, dalla testa ai piedi.
Froome è già in strada da alcuni minuti. Mulina bene la sua tipica corona ovale. Si capisce che ha deciso di combattere. Si mangia Roglič già al primo intertempo. Il fenomenale ragazzo sloveno oggi non va: spinge un rapporto troppo lungo e inficia il rapporto efficienza-efficacia, che è fondamentale nel ciclismo. E in una cronometro ancora di più.
Romain Bardet è partito prima di loro. Se la sta cavando insolitamente bene per i suoi standard. Fa una crono di lusso che è quasi una beffa: gli sarebbe servita di più in altre occasioni. Ma almeno esorcizza il demone del tempo. Sarà comunque salutare, per lui.
Tom Dumoulin è un piacere per gli occhi, come sempre in questo tipo di prove: eleganza e potenza assolute.
Chi stupisce ancora una volta è G: sembra quasi fermo rispetto a Froome e Dumoulin, come cadenza di pedalata, ma in realtà sta spingendo un rapportone micidiale. Sviluppa metri, macina strada.
Poi si arriva all’unico momento importante di questa tappa: la sfida di G con la sfortuna, che lo perseguita regolarmente quando indossa la maglia di leader della classifica generale. Tour de France o Giro d’Italia non importa. Succede regolarmente. Anche lui ci scherza. Ma oggi non ne ha più voglia. Impreca, forse addirittura bestemmia, ma rigorosamente in Cambrian, così nessuno capisce. Doma il mezzo impazzito e lo rilancia.
Finisce tutto lì, di fatto. O quasi.
Al traguardo Froome fa segnare un tempo favoloso. Scalza il compagno Kwiatkowski dalla hot seat, ma ci resta poco. Arriva Tom Dumoulin e gli soffia la vittoria di tappa per un secondo.
Poi arriva G, a 12 secondi. Terzo di tappa.
Lo intervistano a caldo, nel dopo-corsa. Gli dicono: “hai vinto il Tour!”. Devono fermarsi perché lui inizia piangere. È solo un istante. Poi si riprende.
Domani arriverà a Parigi sugli Champs-Élysées, finalmente.
Lì Marco Pantani, il campione della sfortuna, riuscì a forare in un momento critico di una tappa che avrebbe dovuto essere una tranquilla e trionfale passerella. Fu “solo” trionfale. Sono passati esattamente vent’anni.
Era un ragazzino G, a quei tempi. Ma conosce la storia del ciclismo, quasi come Wiggo.
Sa cosa fare.