9 lug 2018 – Prendete una mappa della Francia. Osservate la Loira, il fiume da cui prende il nome la regione (Pays de la Loire) che da tre giorni ospita le tappe del Tour. Inquadrate il suo corso da Angers a Nantes e immaginatelo come il lato superiore di un grande triangolo rovesciato. Ancora da disegnare. Cercate un possibile vertice in basso. Troverete Cholet. Qui si corre la terza frazione della Grand Boucle: una cronometro a squadre di quasi 36 chilometri destinata a riscrivere la classifica generale.
Cholet è la città dei fazzoletti rossi: le mouchoir rouge eternati da una canzone di Théodore Botrel a fine Ottocento. Sono stati il simbolo dello spirito ribelle e controrivoluzionario della Vandea, ora sono un’icona della città e un gadget ambito dai turisti. L’industria tessile è alla base delle fortune economiche di Cholet, fin dal XVIII secolo. È una tradizione che prosegue ancora oggi, nel settore della moda, e che ha portato alla realizzazione di un favoloso Museo del tessile attraverso il riuso di una grande archeologia industriale.
Tessuto: è proprio questa la parola chiave per comprendere il senso della tappa odierna.
Una cronometro a squadre richiede ai corridori di farsi fibre e di intrecciarsi, creando legami forti. Chi non ci riesce rompe la trama, rovina l’ordito. Bisogna filare, nel senso letterale del termine, durante una crono-squadre. Non basta andare forte individualmente. Bisogna andare forte insieme agli altri. Bisogna riuscire a dare cambi regolari. Si tira in testa alla formazione, poi si passa in coda e si resta a ruota dei compagni, per sfruttare la scia. È una dinamica circolare e continua, destinata a riportare davanti chi era tornato in fondo. Avanti e indietro. Come una tessitura ben fatta, appunto.
Vince la squadra che realizza il miglior risultato cronometrico, rilevato sul quarto componente giunto al traguardo. Gli altri quattro possono staccarsi lungo il percorso, dopo aver dato tutto: anche i tessuti migliori, talvolta, hanno frange che possono essere spuntate o che, semplicemente, cedono.
Esiste una forma di ritualità nelle cronometro, siano esse a squadre o individuali: i contendenti (team o ciclisti) partono da soli, a intervalli regolari. Non si corre insieme agli avversari e nemmeno contro di loro. Non si corre nemmeno contro il tempo: si corre insieme al tempo, verso un traguardo stranamente vicino, dal punto di vista della distanza chilometrica, ma infinitamente lontano dal punto di vista dello sforzo psico-fisico richiesto. Così lontano, così vicino: come il titolo di un vecchio film del regista Wim Wenders (1993). Non è un caso. In quella pellicola trovate uno dei personaggi più affascinanti della storia del cinema: Emit Flesti (interpretato dall’attore Willem Dafoe). È lui, senza volerlo, a spiegarci l’essenza di una cronometro: «Se sei gentile, il tuo tempo è gentile. Se vai di fretta, il tuo tempo vola via. Il tempo è un servo se tu sei il suo padrone […] Noi siamo i creatori del tempo, le vittime del tempo, gli assassini del tempo. Il tempo è senza tempo». Lui sa di cosa sta parlando, perché Emit Flesti è un gioco di parole “bifronte” (i francesi direbbero “anacyclique”); se leggi il suo nome al contrario, questo diventa “Time Itself”: il tempo in persona.
Tempo, forma e sostanza si danno insieme in una cronometro. Si danno attraverso una forma di indagine scientifica che inizia ben prima della gara. Si studia il percorso, svolgendo ricognizioni meticolose: si analizzano i cambi di pendenza, anche quelli minimi, le condizioni dell’asfalto, la direzione del vento e la sua variabilità, la temperatura dell’aria, i riferimenti visivi che è possibile assumere lungo la strada. Un’attività complessa che puoi intuire dall’esterno, ma che riesci a capire davvero solo se la vivi, o se te le spiega qualcuno bravo ed esperto. A me l’ha spiegata, qualche anno fa, l’ingegner Marco Pinotti: il miglior cronoman italiano del nuovo millennio, oggi tecnico del team BMC. Un vero ingegnere e, a suo modo, uno scienziato del ciclismo. È al Tour, Marco. Ha preparato la squadra con una delle sue usuali “Master Class” tecniche: mai definizione fu più appropriata per una forma specifica di allenamento. Stanno per accorgersene tutti, a Cholet.
La crono-squadre prende il via alle 15.10 dalla “rampa” posta in Boulevard Delhumeau Plessis. Un lungo rettilineo utile alle formazioni per distendersi e acquisire velocità, prima di transitare nel cuore amministrativo della città, dove svetta L’Hôtel de Ville, cioè il municipio: una delle architetture più infelici di Cholet, soprannominata “la macchina da scrivere” da quella parte di popolazione che non ne va fiera. Altri l’adorano, pare. Chissà perché…
Da lì il percorso piega verso Nord, lungo l’asse infinito che porta a Saint-Léger-Sous-Cholet. Poi si va a ovest, fino a Saint-André-de-la-Marche, dove è posto il primo “intertempo”. Poi si inizia a scendere verso Sud, fino a La Romagne. Infine, si torna a Est, per rientrare a Cholet, passando per il secondo “intertempo” posto sulla Côte de la Séguinière: la principale asperità di giornata.
Il tracciato è più mosso, dal punto di vista altimetrico, di quanto le immagini televisive riescano a suggerire. Si corre tra centri storici, aree industriali e aperta campagna. Un repertorio esaustivo delle risorse economiche di questa parte abbastanza fortunata di Francia. Oggi è uno dei rari giorni in cui la regia televisiva del Tour non è eccellente. Troppe riprese a ridosso dei corridori. Poco respiro per lo sguardo.
Respirano poco anche gli uomini di classifica che puntano alla vittoria finale del Tour, soprattutto quelli che non hanno un team all’altezza per questo tipo di prova. Come Vincenzo Nibali, che perde un compagno dopo l’altro e si ritrova a dover coprire gli ultimi chilometri con una formazione ridotta a quattro elementi: lo stretto necessario e indispensabile per fermare il cronometro. Il ritardo è significativo, ma non drammatico: poteva andare molto peggio.
Ma anche chi ha una squadra particolarmente performante non si risparmia. Chris Froome e Tom Dumoulin fanno “trenate” impressionanti in testa: superbe locomotive capaci di trascinare gli altri vagoni con la stessa livrea. Ma non basta.
Vince la BMC, che è il tessuto migliore: 38 minuti, 46 secondi e spiccioli per partire da Cholet e farvi ritorno. Cambia la classifica generale del Tour, come ampiamente previsto: Greg Van Avermaet, uomo da “classiche” come pochi altri, è la nuova maglia gialla.
Un saluto e tanti complimenti a Marco Pinotti. A suo modo, con il suo stile serio e garbato, l’unico Emit Flesti in circolazione è proprio lui: il tempo in persona.
Paolo Bozzuto
(docente di urbanistica al Politecnico di Milano, autore del libro “Pro-cycling Territory“)