Due milioni di metri quadri per duemila residenti. Presentavano così Doha, la capitale del ciclismo mondiale nell’insolita cornice del Qatar. Certo vedere strade così vuote è un dolore per tutti gli appassionati e probabilmente anche per chi cura l’immagine del ciclismo e ne cerca l’allargamento dei confini. Un evento internazionale è da meritare per cultura, prima ancora che economicamente. Altrimenti l’investimento rischia di ritorcersi contro gli stessi organizzatori (ma chissà se se ne rendono conto e ne hanno davvero interesse) e, soprattutto, contro l’UCI.
Il dolore dei corridori aveva la forma del sudore gettato lungo le strade dalle cronometro alle corse in linea, soprattutto quando si abbandonavano i confini dorati dell’oasi per andare ad esplorare il deserto.
Sì, il percorso è probabilmente il ricordo più brutto. Dal deserto a strade costeggiate da cantieri di qualcosa in costruzione. Un mondo così lontano da far quasi tenerezza pensare a chi ha dovuto lavorare con quel caldo terribile a mettere le transenne su tutto il circuito finale. Transenne utili solo a tenere gli striscioni pubblicitari ché di pubblico non c’era proprio l’ombra. I tifosi che pure sono giunti in Qatar erano così sparuti da sembrare quasi fuori posto.
Sembrava fuori posto anche Eddy Merckx, ambasciatore del ciclismo, a racimolare parole di elogio esortando a “guardare avanti” agli Europei. Ma servono davvero le corse nel deserto al ciclismo al di là della boccata di ossigeno economico che pure significheranno?
Il ciclismo è sport popolare, nel senso che va verso la gente e ci starebbe pure bene, in questo senso, per allargare i suoi confini. Ma abbiamo sempre sperimentato un ciclismo che rapisce la passione quando vedi i corridori da vicino. Qui, al massimo, lo hanno visto in tv, come noi molto più lontani. Non è cambiato niente in questo senso. E allora che allargamento è se non quello economico che così appare davvero sfacciato. Tanto più che si è dovuto correre a metà ottobre, per evitare un caldo ancora peggiore, allungando una stagione infinita, prova olimpica compresa.
Che poi pure il percorso aveva le sue difficoltà e lo svolgimento tattico della gara dei professionisti ha premiato chi lo ha saputo capire e sfruttare. Noi italiani possiamo recriminare poco. Chissà, forse risparmiandosi un po’ Bennati, avrebbe potuto fare lui quello scatto in cui si è buttato l’olandese Leezer negli ultimi chilometri? E magari lui avrebbe avuto la forza per tenere fino all’arrivo? Troppo tardi per pensarci anche se resta nella testa quell’idea che tanto, con quell’arrivo così, il quinto posto era il massimo in cui si poteva sperare per i nostri e allora si poteva sperare di far saltare il banco diversamente, soprattutto visto che si erano già fatti fuori Tedeschi e Francesi.
Accontentiamoci. Alla fine si sono corsi mondiali anche meno interessanti dal punto di vista tattico (pensiamo a Zolder, che certo non ci dispiacque) e questo, anzi, si è risolto proprio grazie alla tattica. L’amaro resta, indelebile, per il brutto ricordo delle strade deserte e delle transenne vuote.
Ragazzine d’oro
Il ricordo più bello che ci portiamo a casa da questo Mondiale, invece, è l’urlo delle ragazzine azzurre alla maglia iridata di Elisa Balsamo tra le Junior. Lei emozionata e con gli occhi lucidi vestita d’arcobaleno da Eddy Merckx, le compagne di squadra lì sotto a urlare l’inno italiano a squarciagola, pronte a saltare sul podio e rompere il rigido cerimoniale fatto di abiti così insoliti a sottolineare lo scollamento tra culture così diverse e compatibili solo sotto il comun denominatore economico.
Dilettanti o Under 23?
Puntuale come ogni appuntamento in cui si assegnano medaglie separate tra Elite e Under 23, è tornata la questione sulle categorie. Da quando non ci sono più i dilettanti e i professionisti, la differenza nelle competizioni mondiali la fa solo la carta d’identità. Col risultato che i ragazzini si trovano a correre, sì, con dei pari età, ma che sono già professionisti con esperienza. L’ordine d’arrivo della corsa del giovedì dice che quell’esperienza conta un bel po’. Sì, corrisponderà anche ad una differenza di “motore” (se sono già professionisti è probabile che siano anche più forti), ma il dubbio che resta è che l’aver cambiato le categorie non sia servito a eliminare quel divario che una volta c’era tra i dilettanti più avanti negli anni e i più giovani. Quelli che si sono visti in corsa erano comunque due mondi distanti, dove uno lascia poche speranze all’altro.
Donne
La sfida più forte di questi Mondiali forse sono state proprio le donne. Mettere in pantaloncini attillati e magliette aderenti tante ragazze in un posto dove le donne possono mostrare appena il volto è stato forse un momento molto forte per una cultura che cerca di guardare avanti ma non riesce a scrollarsi di dosso un’arretratezza che l’allontana dal mondo. Facevano tenerezza le ragazze del Kuwait partite completamente coperte e durate poco più di un giro. E allora viene da pensare che l’assenza di pubblico non sia stata sentita nemmeno come un problema da parte di chi ha voluto ospitare questi Mondiali. Resta il dubbio del perché, a di là del giochino personale per dimostrare che con i soldi si possa fare tutto comunque. Anche una buona organizzazione, perché va pure detto che ha funzionato tutto.
Tra qualche anno ricorderemo una settimana di corse disputate in una bolla di sapone calda e isolata, su un pianeta lontano anni luce dalla Terra che conosciamo. Si parla di incontro di culture e suona bene. Ma perché un incontro sia produttivo ci deve essere apertura da entrambe le parti. È vero, noi europei siamo accusati di essere troppo eurocentrici quando si parla di ciclismo e non hanno tutti i torti. D’altra parte siamo abituati a una tradizione che è storia del ciclismo stesso e veder morire corse anche importanti dispiace un po’ e siamo di parte. Ma almeno ripagateci la perdita con un allargamento reale del pubblico. Quante biciclette si venderanno in più in Qatar o nei paesi arabi dopo il mondiale di Doha rispetto a un qualsiasi altro mondiale che avrebbero visto comunque in tv?
GR