Esistono mille ragioni per amare la Parigi-Roubaix. Se dovessi indicarne una sola, in qualche modo capace di riassumere tutte le altre, mi affiderei alle parole scritte nell’autobiografia di George Hincapie, uno dei corridori tatticamente più intelligenti degli ultimi quarant’anni: «as a race, Paris-Roubaix is like a living, breathing organism. It has a life of its own, and like a caged animal it will fight back».
Storia
La Parigi-Roubaix, fin dalle origini, senza volerlo, è proprio questo: una corsa che ‘reagisce’, che si ribella allo zeitgeist, allo spirito del tempo. Nel 1896, anno in cui si disputa la prima edizione, Parigi è ormai una vera metropoli. La capitale è il luogo dove tutto accade e dove tutto è deciso; non a caso è anche l’epicentro del nascente ciclismo agonistico francese ed europeo. Le Fiandre sono molto lontane. Roubaix è una cittadina industriale, posta al confine con il Belgio, legata all’inquinante produzione tessile: la Ville aux mille chemynées. Sono due ricchi imprenditori locali e appassionati velocipedisti – Théo Vienne e Maurice Perez – a edificare il primo velodromo di Roubaix, che aprirà i battenti nel 1895, e a inventare la corsa destinata a divenire la “regina” delle classiche: 280 chilometri, dalla grande capitale al loro impianto ciclistico, con sei giri conclusivi lungo la nuova pista. L’idea costituisce un’assoluta novità perché, come evidenziato da Les Woodland, a quei tempi «few knew Roubaix and still fewer cared, and because every other race of importance went to Paris and not from it». Vienne e Perez, senza saperlo, stanno per dare inizio a una vera e propria rivoluzione, che ci accompagna da oltre un secolo: il ciclismo come attività capace di costruire una nuova geografia nell’immaginario collettivo di una nazione, capace di portare in evidenza, grazie ai media, realtà territoriali liminari, marginali, e toponimi trascurati dall’audience sociale e politica che risiede nelle grandi città. La Roubaix, inconsapevolmente, è l’origine di un’ontologia del ciclismo inteso come atto di riscossa della “provincia” e delle “aree interne” nei confronti della “metropoli”, ma anche come opportunità di riscatto sociale per persone nate in un contesto familiare povero. A incarnare simbolicamente il tutto, da subito, è la figura di Maurice Garin: ragazzino valdostano emigrato in Francia per lavorare come spazzacamino. Garin è riuscito a sfuggire a quel lavoro ingrato ed è già divenuto un local hero della bicicletta quando il velodromo di Vienne e Perez viene edificato, così partecipa alla competizione inaugurale della pista. Poi, nel 1896, corre la prima edizione della Parigi-Roubaix e si piazza terzo. Vincerà la corsa nei due anni successivi. Soprattutto, nel 1903, trionferà nella prima edizione del Tour de France, la competizione a tappe destinata a divenire il più grande evento sportivo annuale del mondo.
Quelle strade, la fortuna della Roubaix
Garin e tutti gli altri partecipanti alla prima edizione della Parigi-Roubaix si avventurano in bicicletta lungo le strade dissestate dell’epoca, per lunghi tratti coperte dal particolare e micidiale pavé che ancora oggi costituisce l’essenza della corsa. Un lastricato di pietre irregolari, lavorate a mano, capace comunque di garantire la mobilità dei trasporti su quattro ruote che servono al cuore industriale della Francia. Lungo quelle strade sfrecciano i primi campioni transalpini delle gare in linea. Dopo l’interruzione di quattro anni dovuta alla prima guerra mondiale (1915-1918) e fino allo scoppio della seconda, che comporterà altri tre anni di sospensione (1939-1942), saranno però i corridori belgi a dominare l’albo d’oro della competizione. Nel frattempo, nel 1936, a Roubaix è stato inaugurato un nuovo velodromo destinato a ospitare gli arrivi della gara. Molte strade non sono mutate in modo sostanziale dai tempi di Garin, ma la ricostruzione postbellica e la motorizzazione di massa stanno per imporre progressivamente il nuovo paradigma dell’asfalto. Per molte amministrazioni locali, nel Nord-Pas-de-Calais come in altre regioni francesi, le automobili e l’asfalto costituiscono il simbolo della modernizzazione: qualcosa che avvicina le loro comunità alla grande città e all’idea di sviluppo. Il pavé richiama invece l’immagine dell’arretratezza del passato e inizia pertanto a essere coperto, a scomparire.
Nel 1965 solo 22 chilometri della Parigi-Roubaix, su un totale di 265, si disputano sulle pietre: un record negativo. Nel 1967 la corsa si conclude addirittura con un impensabile sprint di gruppo tra velocisti. Jacques Goddet, patron del quotidiano L’Equipe che organizza la competizione, ha un’opinione piuttosto radicale sulla situazione: «Paris-Roubaix est foutu!». Non c’è bisogno di tradurre il concetto dal francese: la corsa si sta normalizzando, sta inesorabilmente perdendo fascino. È questo il momento in cui avviene la seconda grande ribellione della Parigi-Roubaix nei confronti dello spirito del tempo: bisogna tornare all’antico per ripristinare il suo carattere di severità e selettività. Albert Bouvet, direttore tecnico della corsa, e Jean Stabilinski, corridore francese capace di vincere i campionati del mondo di Salò (1962), daranno il primo fondamentale contributo con la “scoperta” del più celebre tratto in pietre ancora oggi percorso: la Trouée d’Arenberg. La “foresta” viene subito inserita nel tracciato dell’edizione del 1968. Il resto è storia: Eddy Merckx vince e solo 44 corridori arrivano al traguardo. Da quell’anno inizia a ricostruirsi il rapporto tra la Parigi-Roubaix e il pavé, che nel corso del tempo – proprio grazie alla corsa e ai suoi appassionati – diviene un ‘patrimonio culturale’ e territoriale da tutelare e valorizzare. Da quasi trent’anni esiste un’associazione dedita a questa mission: “Les Amis de Paris Roubaix” (www.lesamisdeparisroubaix.com).
I corridori e le pietre
Diverso è il rapporto tra le pietre e i corridori: c’è chi le ama profondamente, e vi ha costruito una parte rilevante della propria carriera, e chi le teme, le detesta. La Parigi-Roubaix, infatti, si ribella anche ad alcuni assunti consolidati del ciclismo moderno. Nella sua recente autobiografia, Francesco Moser (vincitore di tre edizioni consecutive, dal 1978 al 1980) si esprime in questi termini: «La Parigi-Roubaix […] non conosce coalizioni, giochi di squadra, strategie […] è la corsa degli Highlanders. Ne resterà soltanto uno». Deve averlo capito anche Peter Sagan, nel 2017, trovandosi vittima di un guasto alla ruota subito dopo aver attaccato, insieme a un compagno di squadra, quando mancavano 77 chilometri al traguardo. Un’azione caratterizzata da una chiara scelta strategica – non solo tattica – che la Roubaix ha immediatamente rifiutato. Deve averlo capito anche Daniel Oss, a cui l’ammiraglia chiese di interrompere un’ammirevole fuga solitaria per investire le ultime energie a supporto dell’azione vincente di Greg Van Avermaet: percorsero davvero poca strada insieme, per non sfidare l’ira della Roubaix. Ha funzionato.
Nemmeno il grande Bernard Hinault, l’ultimo campionissimo del ciclismo francese, è riuscito a ribellarsi alla corsa che si ribella. Eppure ci aveva provato. L’avversione di Hinault per il pavé è ormai leggenda; nel 1980, dopo due partecipazioni poco brillanti, si piazza quarto e sfoga la propria frustrazione proprio con Jacques Goddet, gridando più o meno queste parole: “non mi vedrai mia più in questo circo; tu reputi questa una corsa? Non farmi ridere!”. L’anno dopo, però, ritorna ancora e finalmente vince, fulminando Moser e De Vlaeminck lungo la pista del velodromo. William Fotheringham, autore di un bel libro sulla vita di Hinault e sulla crisi del ciclismo francese (da trent’anni alla perenne ricerca del suo erede), riporta una recente ammissione dello stesso corridore: «I hated the pavé. It was the worry of having a bad crash, the fear of losing a whole season, rather than fear in itself». La Parigi-Roubaix, dunque, finisce per ribellarsi anche a una delle massime verità del ciclismo: “sono i corridori a fare la corsa”. La parabola di Hinault sul pavé sancisce il fatto che esiste almeno una competizione capace di ribaltare questo assunto: è la corsa a fare i corridori. Anche per questo motivo, gli ultimi 35 anni ci hanno regalato generazioni di grandi specialisti innamorati della Parigi-Roubaix: Marc Madiot, Gilbert Duclos-Lassalle, il compianto Franco Ballerini, Johan Museeuw, Fabian Cancellara e Tom Boonen, che proprio alla Roubaix del 2017 ha disputato l’ultima gara di una carriera straordinaria. Una carriera volutamente prolungata oltre il previsto per inseguire, sulle pietre francesi, un ultimo trionfo che gli avrebbe regalato il record assoluto di vittorie nella “regina” delle classiche. Non ce l’ha fatta, Boonen, nonostante una grande prestazione. Sarebbe stata una storia meravigliosa da raccontare, epocale, ma la Roubaix si è ribellata anche a questo.
Il saggio George Hincapie chioserebbe così: «it’s a race where expectations rarely, and may never, intersect with reality».
Qualche consiglio di lettura:
- Fotheringham W., “Bernard Hinault and the fall and rise of french cycling”, Yellow Jersey Press, London 2015
- Hincapie G., Hummer C., “The Loyal Liutenant”, HarperCollins, New York 2014
- Le Touzet J.L., “Panseur de pavés – En 1968, Bouvet sauve la course de l’invasion de l’asphalte”, Libération, 12 aprile 2003; http://www.liberation.fr/sports/2003/04/12/panseur-de-paves_461495
- Moser F., Mosca D., “Ho osato vincere”, Mondadori, Milano 2015
- Sergent P., “A Century of Paris-Roubaix”, Bromley Books, 2001
- Woodland L., “Paris-Roubaix: the inside story”, McGann Publishing, Cherokee Village, Arkansas, 2013
Paolo Bozzuto
(docente di urbanistica al Politecnico di Milano, autore del libro “Pro-cycling Territory“)