21 apr 2019 – È difficile essere Peter Sagan. O, almeno, immagino che debba esserlo. In qualunque momento, a causa delle continue aspettative di sponsor, media e tifosi. In particolare, in questo periodo: uno dei meno felici della sua carriera. Una sola vittoria dall’inizio della stagione: la terza tappa del Tour Down Under, a metà gennaio. Un secondo posto in una frazione della Tirreno-Adriatico, a marzo. Poi, sostanzialmente, il vuoto.
Non è solo un problema di risultati: è un problema di prestazioni. Sagan ha già avuto annate poco fortunate, in cui la vittoria sembrava volergli costantemente sfuggire per pochi centimetri, pochi secondi, o per le prestazioni eccellenti dell’avversario di turno. Non vinceva, ma si giocava la corsa ogni volta che attaccava il numero sulla maglia. Quest’anno, non è proprio così: sembra non riuscire a essere competitivo nelle fasi davvero decisive.
Fin dall’inizio di questo 2019, sembra mancargli lo spunto veloce micidiale che aveva sempre mostrato, negli anni passati, durante la prima parte della stagione. Dato puntualmente confermato in occasione dello sprint all’ultima Milano-Sanremo. Le recenti classiche del Nord, in particolare Fiandre e Roubaix, hanno però messo in luce anche una sua mancanza di consistenza oltre una certa soglia di chilometraggio. Forse non basta il banale (ma debilitante) malanno patito prima della Tirreno per spiegare la sua condizione poco brillante. Ovviamente, tutto ciò va inteso in senso relativo: il 95 % dei ciclisti al mondo sognerebbe di essere così “poco brillante”. Ma essere Peter Sagan è diverso dall’essere un normale ciclista. Per questo è difficile.
Si potrebbero formulare molte congetture sulle ragioni che hanno portato a questo suo periodo agonisticamente difficile. Un’ipotesi contemplabile – recentemente propugnata anche dal suo entourage più ristretto – è quella di una programmazione/preparazione leggermente diversa rispetto al passato. In altre parole: avrebbe deciso di puntare anche (o soprattutto) alla decana delle classiche monumento, la Liegi-Bastogne-Liegi, passando prima per l’Amstel Gold Race. L’eventuale conferma o smentita della bontà di questa scelta non tarderà ad arrivare: nell’arco di una settimana, tra oggi e domenica 28 aprile, la strada ci darà le risposte. Se saranno positive per Peter, il bilancio di questa prima parte di stagione dovrà essere rivalutato. Altrimenti, per l’opinione di molti, sarà crisi vera.
Comunque vada, credo che questo sia il momento giusto per fare una riflessione complessiva sull’essenza di Sagan come ciclista. Non perché sia importante discutere le sorti di questo o quel corridore, ma perché riflettere su Sagan significa – quasi inevitabilmente – prendere in considerazione una diversa prospettiva sul ciclismo.
Peter Sagan è uno di quegli atleti che, nella storia dello sport, hanno ricevuto un’investitura quasi messianica da parte degli addetti ai lavori, dei media e del grande pubblico. A questi eletti si è chiesto di portare in una nuova dimensione la loro disciplina o, al limite, di rinverdire fasti del passato incarnando una versione contemporanea dei più grandi campioni del tempo che fu. Molti appassionati si aspettavano che Sagan diventasse il nuovo Merckx, il nuovo cannibale capace di vincere ogni corsa, su qualunque tipo di terreno. Ai tempi degli esordi di Peter nella Liquigas, tante persone si erano esercitate a costruire scenari sulla possibile evoluzione della sua carriera. La dinamica immaginata da costoro era semplice, praticamente banale: Sagan doveva iniziare a vincere corse da velocisti, poi mietere ogni tipo di successi nelle classiche, poi trasformarsi in un campione delle grandi corse a tappe (Tour e Giro, soprattutto).
Non serviva essere un genio per capire che tutto ciò sarebbe stato impossibile. Merckx e Gimondi sono stati gli ultimi alfieri del ciclismo “classico”, prescientifico e non specializzato. Sulla loro scia, mentre tutto iniziava a cambiare, si è inserito Bernard Hinault: probabilmente l’ultimo “campionissimo” dello sport del pedale, capace di vincere grandi giri e classiche a ripetizione. Quella storia si è simbolicamente conclusa con il Tour de France 1989, quando Laurent Fignon perse la maglia gialla, per pochi secondi, anche a causa delle “protesi” da triathlon montate da Greg Lemond. Stop. Da lì in poi, è davvero iniziato un altro ciclismo.
A tutto ciò Sagan è sempre sembrato abbastanza indifferente. Ha fatto la sua vita, immerso in quella dimensione da eterno fanciullo che pare ancora seguirlo ovunque e che trova la propria sintesi migliore nel motto che Peter è solito ripetere: “Why so serious?”. Cioè: perché prendere le cose in modo così serioso? Perché prendersi troppo sul serio? È una questione di approccio e postura nei confronti del mondo, non di serietà sostanziale. Perché sulla serietà professionale di Sagan nessun può avanzare critiche, stando a ciò che racconta chi ha avuto modo di conoscerlo davvero. Sempre che non vogliate criticare un corridore che, in allenamento, talvolta affida l’ultima valutazione sul lavoro da fare alle proprie sensazioni, senza concedersi totalmente, in modo cieco e fideistico, alle tabelle dei preparatori. Io, proprio, non me la sentirei di criticarlo per questo motivo.
Sagan costituisce un’eccezione e un’aporia vivente nel panorama del ciclismo contemporaneo. Fino a oggi ha deluso le aspettative di molti, dal punto di vista del palmarès, soprattutto per quanto riguarda i risultati nelle “classiche monumento”. Allo stesso tempo, vincendo tre Campionati del Mondo consecutivi, è riuscito a issarsi in quella posizione di unicità storica che tutti si aspettavano da lui. I suoi titoli mondiali sono come i tre miracoli necessari a un peccatore per ambire alla santità. Il grande merito di Peter è averli compiuti, con bravura, determinazione feroce e un pizzico di fortuna. Non per niente è difficile essere Peter Sagan.
Mondiali a parte, però, è ormai evidente che la dimensione agonistica ideale di Peter Sagan è quella della “maglia verde”: la classifica a punti del Tour de France. Senza la discutibile squalifica subita nel 2017, molto probabilmente avrebbe una serie, ancora aperta, di sette vittorie consecutive. Invece, sono “solo” cinque più una. Il conto, forse, andrà aggiornato nel prossimo mese di luglio.
La maglia verde costituisce il secondo obiettivo, per prestigio, che un corridore può ottenere nella grande corsa a tappe francese. Come tutto ciò che riguarda il Tour – un mondo a parte, dal punto di vista dell’attenzione mediatica globale e del ritorno economico diretto, rispetto al resto del ciclismo – la maglia verde è fondamentale per gli sponsor e, quindi, per il destino di un corridore e della sua squadra. Per molti appassionati, però, costituisce un trofeo minore rispetto a eventuali vittorie nelle “classiche monumento”. Non basta a definire una stagione. Soprattutto, la stagione di un corridore sempre gravato da mille aspettative altrui. La pensava così anche Oleg Tinkoff, il magnate russo proprietario della squadra per cui Sagan ha corso dal 2015 alla fine del 2016. La maglia verde non gli bastava. I rapporti tra Sagan e Tinkoff sono raccontati, in modo molto divertente, nell’autobiografia “My World” che Peter ha scritto e pubblicato nel 2018, con la collaborazione di John Deering, per la casa editrice londinese Yellow Jersey.
In quel libro trovate anche la definizione che Peter da di sé stesso come corridore: «all-rounder». Quasi fosse costretto ad applicarsi un’etichetta per rispondere a chi, ancora oggi, gli chiede se sia un velocista. È difficile essere Peter Sagan anche perché, poi, ti tocca affrontare simili domande banali.
È un termine interessante, “all-rounder”. In molti sport è usato per indicare atleti/giocatori versatili, capaci di avere una visione e una pratica complessiva della loro disciplina. È difficile emergere, se sei un all-rounder, in un mondo in cui la specializzazione viene premiata, in qualunque settore. Se ci riesci, allora sei probabilmente destinato a grandi cose. Alcuni dei più grandi atleti della storia dello sport sono degli all-rounder. Giusto per fare due esempi: Michael Jordan nel basket e Roger Federer nel tennis.
Peter Sagan, per necessità di definizione, può essere inserito in questa tipologia di sportivo. Se ne potrebbe discutere, ovviamente. Risultati alla mano, forse l’unico grande corridore all-rounder del ciclismo contemporaneo è Vincenzo Nibali, capace di vincere tutte le principali corse a tappe e due “classiche monumento” concettualmente agli antipodi come percorso: il Lombardia e la Sanremo.
Nel caso di Sagan, il concetto di all-rounder funziona alla perfezione proprio se torniamo a pensare alla maglia verde, alla classifica a punti del Tour. O, per meglio dire: alla classifica a punti delle grandi corse a tappe, in genere.
Molti appassionati di ciclismo, incoraggiati dal deposito storico dei risultati e degli ordini di arrivo, interpretano questo tipo di graduatoria come un trofeo per velocisti. O, al limite, per regolaristi capaci di ottenere piazzamenti nella maggior parte delle tappe disputate. Ma non è del tutto corretto. Sembra assurdo affermarlo, lo so: si corre il rischio di apparire presuntuosi e irrispettosi nei confronti della storia e della tradizione. Ma a questo ci costringe la figura di Sagan: rimettere in discussione il ciclismo e il nostro modo di seguirlo. Anche per questo è difficile essere Peter Sagan.
La classifica a punti non è una graduatoria per specialisti della velocità o della regolarità: è semplicemente un modo diverso e alternativo di concettualizzare la classifica generale, quella destinata a premiare il più forte, il migliore. La differenza sta nel modo di intendere un grande corsa a tappe: come un lungo viaggio da concludersi nel minor tempo possibile, oppure come sommatoria di corse che vanno a comporre un quadro complessivo simile ai “campionati” di altri sport.
Non è bassa filosofia o questione da sofisti, è parte della storia del ciclismo: la classifica generale del Giro d’Italia, dalla sua prima edizione del 1909 fino al 1913, era a punti.
Ormai, dopo tanti decenni, ci appare normale e logico pensare che il più forte, il vincitore, debba essere colui che impiega meno giorni, ore, minuti e secondi per giungere al traguardo della frazione conclusiva di un grande giro. Ma ciò ha senso solo se, appunto, si pensa una corsa a tappe come un lungo viaggio. E un lungo viaggio, per essere tale, deve avere una sostanziale continuità territoriale: si parte da un luogo, la mattina, si arriva in un’altra località nel tardo pomeriggio. Si resta lì, ci si riposa e, il giorno dopo, si riparte verso un’altra meta. Salvo eccezioni che sempre possono essere contemplate.
Nel ciclismo contemporaneo, però, tali eccezioni sono purtroppo diventate regola. Il disegno dei percorsi complessivi di Tour de France, Giro d’Italia e Vuelta a España – anno dopo anno – ci appare sempre più frammentario e frammentato. Le Grand Départ o Big Start dai Paesi stranieri, che tanto fanno arrabbiare gli appassionati più “nazionalisti”, costituiscono forme di preludio spettacolari e vantaggiose per gli organizzatori delle corse: sono legittime e accettabili. Il dato problematico è che logiche analoghe sono ormai dominanti anche quando si ritorna in patria e inizia la vera corsa sul suolo nazionale. La continuità territoriale non è più un fattore nel disegno dei percorsi. I trasferimenti tra una tappa e l’altra si fanno sempre più lunghi e onerosi, dal punto di vista delle distanze e della logistica. A volte, si cambia completamente scenario territoriale e paesaggistico da un giorno all’altro. Così facendo, la competizione generale muta la propria natura: non somiglia più a un viaggio, bensì a una sequenza di corse, di eventi agonistici isolati che vanno a comporre una sorta di “campionato” lungo 21 giornate.
Se si accetta questa interpretazione deliberatamente provocatoria dei tracciati attuali delle grandi corse a tappe, allora bisogna ammettere che la classifica a punti può forse essere più significativa e rivelatrice di quella generale a tempo, perché costringe i corridori a essere protagonisti ogni volta che attaccano il dorsale sulla schiena. O, almeno, a provarci. Diventa quasi un’altra specialità del ciclismo: implicita, non formalizzata.
In questa informale specialità, seppur limitata alle tre settimane del Tour, Peter Sagan è dominante da anni. Ha edificato una propria dimensione specifica, che sembra inaccessibile per tutti gli altri. Nel farlo, ha dato al pubblico ciò che il pubblico desidera di più: spettacolo continuo, emozioni ricorrenti, gioie e delusioni in serie. Da qui, oltre che dalla sua naturale simpatia ed esuberanza caratteriale, deriva la sua popolarità globale.
In definitiva: tra successi clamorosi e aspettative deluse, Peter Sagan è diventato una sorta di anomalia che ci costringe a riflettere sul nostro modo di considerare il ciclismo, le sue tradizioni e le sue forme consolidate. Un valore aggiunto per chi ama e osserva il ciclismo come fenomeno territoriale, storico e sociale: non solo – semplicemente – come uno sport che genera classifiche, vincitori e piazzati.
Da questo punto di vista, i risultati di una singola stagione, di una campagna del Nord o della prossima settimana saranno, complessivamente, irrilevanti.
Non tutti riusciranno a capirlo.
Anche per questo motivo, è difficile essere Peter Sagan… O, almeno, immagino che possa esserlo.
Paolo Bozzuto
(docente di urbanistica al Politecnico di Milano, autore del libro “Pro-cycling Territory“