Mio padre, che per quarant’anni ha scritto film e fiction televisive, diceva spesso che, secondo lui, i critici cinematografici erano dei registi o degli sceneggiatori mancati che, nelle proprie recensioni, sfogavano l’astio e l’invidia provati nei confronti di chi aveva avuto miglior successo di loro.
Non so dire se avesse ragione o meno, ma quando ho cominciato a scrivere recensioni di libri sul ciclismo, ho ripensato a quella frase e mi sono imposto di non scivere mai di libri che non mi erano piaciuti.
Per l’audiolibro di Pellizzari, però, faccio volentieri un’eccezione, perché l’idea di fondo del testo è piuttosto interessante: raccontare com’è cambiato il Mondo del Ciclismo negli ultimi dieci anni; peccato che..
Testo ⚙⚙⚙⚙⚙
Il libro comincia con queste parole:
Questo libro non è una biografia di Peter Sagan.
O meglio, non lo è nel senso tradizionale del termine, non si tratta cioè di un libro su Peter Sagan, quanto piuttosto di un libro attorno a Peter Sagan. Attorno a ciò che questo ciclista senza precedenti, strano e irriverente – e anche il più forte al mondo –, rappresenta oggi.
Generazione Peter Sagan ha infatti l’ambizione di compiere un’indagine a trecentosessanta gradi su come è cambiato, su cosa è diventato il mondo della bici negli ultimi dieci anni (da quando Sagan, guarda caso, ha fatto la sua comparsa sulle scene).
Si sente spesso dire, da più parti, che la bici «va di moda», che pedalare è diventato un gesto trendy, cool, quasi da youtuber. Verissimo, ma pochi si interrogano davvero sulle ragioni di questo curioso fenomeno.
Se ci siano solo motivazioni ecologiste e salutiste (ottime, per carità), o se invece siano implicati altri aspetti.
Forse meno evidenti, ma certo non meno profondi e interessanti da analizzare. Il libro si propone di rispondere a queste domande, e lo fa attraverso Peter Sagan.
Perché Peter – per sua volontà o meno, poco importa – è il simbolo, l’icona pop, la manifestazione esteriore di quello che è la bici nel nostro presente.
Già da queste poche righe, un lettore accorto può ravvisare il problema di fondo del testo.
Pellizzari sostiene che Sagan sia stato il motore primo del cambiamento che ha subìto il mondo del ciclismo nel secondo decennio del 2000 e, per 150 pagine, riporta una serie di prove a sostegno di quanto afferma.
Peccato, però, che la sua tesi è errata.
Nei dieci anni precedenti il 2019, anno di pubblicazione del libro, non è cambiato solo il ciclismo, ma tutto il Mondo e questo non a causa di Peter Sagan – che fino al 2013 non ha vinto nulla di importante -, ma in conseguenza dell’uscita del primo smartphone, avvenuta nel 2008, e della contemporanea diffusione dei social-network come Facebook. I ciclisti, che vivono nel Mondo, hanno naturalmente risentito di questo drastico cambio nelle abitudini di vita e nelle forme di comunicazione, modificando di conseguenza il modo in cui vivevano la bicicletta.
Tutto qui.
Peter Sagan è indubbiamente il ciclista che ha saputo interpretare meglio questo cambio di paradigma, ma non ne è stato certo la causa. Pellizzari, invece, confonde il primo violino con l’autore della sinfonia e per 5 ore e 36 minuti (tanto, dura l’audiolibro), è costretto a elaborati esercizi di funambolismo dialettico per piegare la realtà alle sue tesi.
Questo è un peccato, perché l’analisi che Pellizzari fa del Ciclismo moderno è accurata e puntuale, spaziando dai bar dedicati agli utenti delle due ruote come Look mum no hands! fino ai percorsi digitali di Zwift e, senza il peccato originale di voler ricondurre tutti questi cambiamenti a Sagan, il libro sarebbe stato un interessante campionario dei nuovi modi di andare in bicicletta.
Mettere il nome di un personaggio famoso in copertina, probabilmente ha aiutato le vendite del libro o dell’audiolibro – “Generazione Peter Sagan” acchiappa molto di più di: “Analisi dell’impatto dei social-media sul Mondo del Ciclismo nella seconda decade del XXI Secolo” – ma ha imposto una chiave di lettura falsata, che rende inattendibile il lavoro dell’autore:
[i ciclisti] Rispondevano tutti a un comandamento: l’umiltà. Non si guadagnavano mai la scena con colpi di testa o bizzarrie; potevano primeggiare, anzi era meglio che lo facessero chiaramente, ma solo in strada, sulle salite, giù dai dirupi, rischiando anche la vita, nelle volate. Quello era il loro campo e non erano contemplate invasioni in quelli altrui.
Pellizzari, secondo lei: Bartali era umile?
La storia d’amore fra Coppi e Giulia Occhini è passata sotto silenzio?
Qualcuno pensa ad Anquetil o a Cipollini come a degli asceti?
No.
La realtà è che l’ambiente del ciclismo è ben diverso da quello della Rolex Cup di Porto Cervo. Come scrive Stefano Pivato in Storia sociale della bicicletta:
Il filo rosso che congiunge generazioni di ciclisti lungo tutto l’arco del Novecento è proprio quello dell’estrazione popolare. Per questo fa notizia negli anni Ottanta un ciclista atipico come Laurent Fignon, unico parigino e unico diplomato ad avere scritto il suo nome nell’albo d’oro del Tour de France.
Se alcuni ciclisti non hanno saputo far altro che rischiare la vita pedalando lungo le strade è perché, probabilmente, non sapevano fare altro.
Andiamo avanti:
La bicicletta era sempre stato un oggetto immediatamente associato alla fatica. Come l’aratro, come il trattore, era uno strumento inventato dall’uomo con un preciso fine pratico. La sua più intima essenza era la sofferenza.
Elencare tutte le opere d’arte che smentiscono questa affermazione richiederebbe un saggio a sé stante; qui, mi limito a ricordare che era l’11 febbraio 1897, quando Romualdo Marenco e Luigi Manzotti misero in scena al Teatro alla Scala la prima di: Sport. Ballo in otto quadri, in cui la bicicletta compariva in scena insieme ai ballerini, come simbolo del progresso e della leggiadrìa:
Anche la canzone: Bellezza in bicicletta, cantata da Silvana Pampanini nel 1951, quasi mezzo secolo prima della nascita di Sagan, non parla di fatica o sofferenza, anzi:
Ma dove vai con i capelli al vento,
col cuor contento e col sorriso incantator.
Se tu lo vuoi, o prima o poi,
arriveremo sul traguardo dell’amor.
Molto ci sarebbe da dire anche sull’immagine – errata – che Pellizzari dà dei gregarii, ma non voglio trasformare questa recensione in un saggio sociologico; avremo modo di approfondire il discorso in un’altra occasione.
Chiudo quindi la sezione dedicata al testo con un’ultimo brano, tratto del capitolo finale – in cui Pellizzari racconta un escursione sul tragitto della Milano-Sanremo fatta in compagnia di alcuni amici -, che mostra chiaramente a quali sofismi debba ricorrere per giustificare i suoi assunti errati.
A nessuno in questo momento sembra che stiamo facendo fatica. Questa è una celebrazione della gioia condivisa, una specie di raduno rock su due ruote. È chiaro che in un certo senso stiamo faticando – Strava, a fine giornata, ci informerà che abbiamo bruciato in media cinquemila calorie ciascuno – ma non stiamo affatto soffrendo.
In altre parole, se avessero fatto la stessa strada dieci anni prima, si sarebbero sentiti brüsar ‘l cül, come Ganna al Tour, ma, avendola fatta nel post-Sagan, hanno faticato solo in un certo senso.
Sono:
stanchi, stravolti, ma di quella stanchezza, che dà piacere, le endorfine prendono il sopravvento su ogni cosa.
Insomma: menomale che Sagan c’è.
Voce narrante ⚙⚙⚙⚙⚙
Se il testo di Pellizzari, “nel mio personalissimo cartellino”, come direbbe Rino Tommasi, merita almeno un ingranaggio, perché l’idea di raccontare i cambiamenti prodotti sul mondo del ciclismo dall’Era social non è affatto male, la lettura di Marco Bellocchio (suppongo un omonimo del noto regista, non ho trovato informazioni sul sito Audible) non ne avrà nemmeno una, perché, invece di aiutare e abbellire il testo, lo peggiora con un birignao e un’affettazione da operetta, rendendolo talvolta insopportabile.
Vero è che il testo non aiuta lui, perché Pellizzari ha una spiccata passione per i termini inglesi, mentre Bellocchio non dimostra una grossa familiarità con le lingue straniere, cosa che genera ripetuti “inciampi” lessicali.
Riporto solo quelli che mi ricordo, ma vi assicuro che la lista è piuttosto lunga:
Capitolo 2:
nel primo minuto abbiamo un “YouTube” pronunciato: “iu tube”, in puro stile ginecologico e un: “You’re the One That I Want”, che non ho la forza di traslitterare.
Capitolo 5: “100 Percent” letto: “cento persent” (4 volte).
Capitolo 8: a questo punto ho cominciato a inserire dei bookmark (perché usare la parola italiana, se c’è quella inglese?) ogni volta che notavo un errore, così la lista è più corposa. Abbiamo: “grunge” letto: “grunsh”, alla francese; lo splendido: “criterium” letto: “craitirium”; “Mont Ventoux” e: “Alpe d’Huez”, violentati qui e altrove; “heritage”, letto: “heritash, come dicono gli inglesi” e: “challenge”, letto: “chellengh”, per altro con articolo maschile, anche se si traduce con il femminile: sfida.
E mi fermo qui, come diceva Cossiga.
Regia ⚙⚙⚙⚙⚙
Io ho una visione marinaresca delle gerarchie.
In barca comanda il Capitano, ma, per questo motivo, è lui quello che ha la responsabilità di tutto ciò che avviene a bordo.
A mio modo di vedere quindi, il regista (altrimenti detto: the director, che, rende meglio l’idea), ha la responsabilità dell’esito finale di una produzione, così come un direttore d’orchestra ha la responsabilità della riuscita di un concerto.
La scheda dell’audiolibro, sul sito di Audible, non riporta né il nome del regista né quello del tecnico del suono, ma qualcuno dev’essere pur stato e quel qualcuno ha sentito le stesse cose che ho sentito io.
Avrebbe potuto dire a Bellocchio: “Guarda che si dice: hundred percent”, oppure: “Guarda che si dice: criterium”, ma non l’ha fatto, quindi, per come la vedo io, la cattiva lettura è anche colpa sua.
L’audio ha anche dei salti di volume e delle pause troppo brevi fra un capitolo e l’altro (v. passaggio da settimo a ottavo), ma su cinque ore di registrazione e soprattutto nel contesto generale della cosa, si tratta di errori minimali.
Scheda
- Tipologia: Audiolibro
- Titolo: Generazione Peter Sagan
- Autore: Giacomo Pellizzari
- Editore: 66thand2nd
- Narratore: Marco Bellocchio
- Data di uscita su Audible: 2 ott 2022
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