13 ott 2017 – Anche al Giro di Lombardia abbiamo visto un volo pauroso di un professionista. Ormai ci siamo quasi abituati. I numeri delle cadute negli ultimi anni sono triplicati, e spesso, anzi quasi sempre sono cadute con conseguenze più o meno gravi. E allora si dividono le opinioni di appassionati, di tecnici e di organizzatori: c’è chi dice che la discesa è una componente tecnica importante è che è parte stessa della strada, e quindi va mantenuta. C’è di contro invece chi per favorire la sicurezza auspica una riduzione dei tratti in discesa. Sarà questa una soluzione risolutiva, etica ed in grado di mantenere i valori del nostro sport, o sarebbe una soluzione come quella adottata dal Mondo dei motori, dove l’aumento delle vie di fuga nelle curve ha portato sì maggior sicurezza ma anche situazioni di gara quasi imbarazzanti con piloti che non subiscono penalità nonostante errori piuttosto gravi?
Prima di tutto, bisognerebbe arrivare a capire il perché di questo aumento di numero di cadute. Non è un dato oggettivo: anche se non esistono statistiche precise, è sotto l’occhio di tutti che se negli anni ’80 prendevamo uno spavento a vedere una brutta caduta ogni tanto, ora ce lo aspettiamo quasi ad ogni gara. Non solo: se le cadute prima erano appannaggio di corridori di centro-gruppo e raramente coinvolgevano atleti in grado di poter vincere, ora vediamo in terra corridori di primissimo piano. Se ci siamo scandalizzati decenni fa per la bruttissima caduta di Jalabert in volata, o di Mario Cipollini senza casco, quest’anno, in una sola stagione, abbiamo avuto conseguenze gravi per Valverde al Tour, per Thomas sia al Giro che al Tour, per Kittel costretto al ritiro addirittura in maglia verde al Tour. E ancora Cavendish nella dibattuta volata che ha visto la squalifica di Sagan, e Sagan stesso al Fiandre. E ancora grossi cambiamenti di classifica al Tour per la caduta di Porte, tra l’altro già caduto anche alle Olimpiadi di Rio. Una ecatombe in un periodo di tempo brevissimo. Al quale vanno aggiunte le morti. Già, perché se una volta una morte era un caso del tutto eccezionale, come quella avvenuta al povero Fabio Casartelli al Tour de France del 1995, oggigiorno annoveriamo una fila di tristi eventi: Weylandt al Giro 2011, Demoitié alla Gand del 2016, Chad Young all’inizio di quest’anno. Un’escalation brutale.
Sono davvero le discese le colpevoli? Ogni caduta ha una sua storia, ma i fatti sono inconfutabili: vediamo cadute quasi quotidiane, con qualsiasi condizione meteorologica. C’è qualcosa che non va, e onestamente sono contrario a eliminare le discese per la sicurezza. La discesa del Brinzio, con un Claudio Chiappucci scatenato che supera Buenahora come fosse fermo, è storia del ciclismo, in un’epoca in cui l’unico a cadere era sempre il solito Alex Zulle, mentre ora sembra di avere un gruppo pieno di miopi come lo era il campione elvetico. E se il problema fosse altrove? Per esempio i materiali: bici ultra rigide che non permettono il minimo errore, super leggere, forse anche troppo in proporzione a chi ha fisici più imponenti. Posizioni in sella pensate solo ed esclusivamente per la prestazione, lo scatto, la spinta, ma che si rivelano trappole infernali nella guida. Preparazioni tecniche degli atleti che trascurano la guida.
Il ciclismo è quello che è perché viene corso su strada. Attraversa i paesi, con i ciclisti che sfiorano i tifosi davanti alle proprie abitazioni. E questo include buche, pioggia, discese, strettoie e quant’altro. La discesa è una componente tecnica, che non deve diventare un macabro spettacolo, ma deve rivalutarsi e ritornare ad essere un momento di competizione, e per fare questo non basta eliminarla, perché poi i ciclisti cadranno in pianura, e cadranno in volata, e cadranno nelle strettoie e nelle rotonde. Bisogna che tecnici e corridori decidano insieme forse di fare un passo indietro sulle prestazioni in salita delle biciclette, e cercare un compromesso a tutto tondo, ricordandosi che la buona bici è quella che ti porta sano all’arrivo con il compromesso tra prestazione e affidabilità, non il cavallo di razza che va trattato con attenzione perché potrebbe imbizzarrirsi e disarcionarti.
Stefano Boggia