3 giu 2019 – Alla fine ha vinto Carapaz/Chiappucci. Il paragone con uno dei corridori italiani più combattivi, prima di questo Giro d’Italia, era solamente fisico. Ora lo è anche tattico.
Carapaz ha guadagnato minuti quando Roglic e Nibali si guardavano in cagnesco e facevano dichiarazioni alla stampa per innervosire l’avversario. Quando si sono accorti che quei minuti non aveva nessuna intenzione di mollarli è stato troppo tardi. Anzi, quando c’è stato il tentativo vero di “far fuori” Carapaz, lo scalatore ecuadoriano ha svelato tutta la sua forza. Ha guadagnato ancora secondi sugli avversari e ha mostrato i muscoli di una squadra ben organizzata e in grande spolvero. Con Landa a fargli, suo malgrado, da gregario.
Sembra ciclismo di altri tempi, quando queste trappole scattavano in corsa e i direttori sportivi facevano la tattica la sera prima e poi era difficile avvisare per tempo i corridori. Dovevano cavarsela da soli facendo la differenza tra campioni e deboli di nervi, prima che di gambe.
Mi attacchi e ti prendo pure a schiaffi. Visto così, questo Giro, ha da raccontarne. E poi davvero Carapaz assomiglia Chiappucci. Ma sarebbe ingiusto parlare di fuga bidone. Ci ha messo le forze e sempre di più, fino al traguardo di Verona che insomma era lì, ma due minuti sono un attimo.
E poi ci ha messo il pepe del campione quando ha risposto alla domanda se non fosse difficile tenere la Maglia Rosa: “È più difficile conquistarla”, ha detto. Nelle tappe successive, fino a Verona, ha dimostrato che non parlava a caso. Ora provate a non chiamarlo Campione.
È stato meno interessante questo Giro d’Italia rispetto all’edizione 2018?
Sì, risposta impietosa. Ma attribuirne la colpa agli organizzatori non sarebbe giusto.
Contro gli organizzatori può pesare un disegno del Giro d’Italia vecchio stile: tanta pianura all’inizio, tanta salita alla fine (poca quella decisiva, forse). Col risultato di tanta noia interrotta solo dai fatti di cronaca (la caduta di Dumoulin, il declassamento e la rabbia di Viviani…) che con lo spettacolo ciclistico hanno a che fare marginalmente e poco altro. Tappe mediamente soporifere per gli spettatori e con i commentatori alla disperata ricerca di spunti agonistici troppo spesso inesistenti. Si finiva per invocare il vento e ventagli mai visti.
Un percorso così è stato la concausa anche dell’abbandono comandato di Viviani ed Ewan, velocisti senza quasi più niente da fare dopo i primi giorni.
Poi ci si è messa la sfortuna. La presenza di Egan Bernal e Tom Dumoulin avrebbe certamente portato a un racconto più vario nelle dinamiche della corsa. Del secondo abbiamo detto, il primo si è infortunato proprio a pochi giorni dalla partenza del Giro e ha lasciato, di fatto, la sua squadra a fare da Cenerentola, praticamente inesistente in questo Giro e con pochissimi momenti di luce. E sarebbe anche da discutere sull’organizzazione del World Tour che a volte porta i Team a partecipare con giovani che fanno solo esperienza o poco più. Non è neanche elegante, rispetto agli sponsor che pagano fior di soldi, trovarsi dietro formazioni continental che, invece, sembrano meritare molto di più grazie al biglietto strappato all’ultimo e con tanti ringraziamenti. E le squadre, giustamente, scelgono la formazione da portare. Ma se al posto di una Dimension Data (per fare un esempio di squadra che in questo Giro si è vista poco – diciamo così) ci fosse stata un’altra continental volenterosa e bisognosa di immagine?
Bisogna meritarsela la partecipazione a un Grande Giro, e dovrebbe valere per tutti.
È che ci eravamo pure abituati bene. Il Giro dello scorso anno si era fatto perdonare anche dai più critici la partenza in Israele. Le prime tappe sono state impegnative e hanno dato spettacolo. Poi la “fortuna” dell’impresa di Froome sul Colle delle Finestre e la sua vittoria. Onestamente era difficile sperare in un altro spettacolo altrettanto importante.
Però ci siamo goduti – e col senno di poi andiamoci a rileggere le tappe che consideravamo interlocutorie – Richard Carapaz.
L’ecuadoriano si è rivelato fortissimo e scaltro. Li ha messi nel sacco piano piano. Ha teso la trappola senza clamore, ha vinto due tappe di forza, ha dimostrato, nel momento giusto, di averne ancora, li ha controllati e quando se ne sono accorti la partita era già chiusa. A 26 anni tanto di cappello. Noi lo chiameremmo giovane, lui è già navigato e ha dimostrato di saper pure gestire la squadra.
Col senno di poi è facile dire che questo Giro l’ha perso Nibali con quei minuti regalati. Sarebbe ingiusto verso Carapaz. Probabilmente ne avrebbe guadagnati altri altrove. Ha dimostrato di poterlo fare, di avere il colpo in canna.
Certo, li ha fregati tutti. Di tattica, da campione.
Guido P. Rubino