8 mag 2016 – Potremmo chiamarla la “tattica della fuga chirurgica” quella che abbiamo visto oggi e in diverse altre tappe anche degli anni passati al Giro d’Italia (e non solo, ok).
Di che si tratta?
Va via una fuga, prende un margine di vantaggio di diversi minuti senza che davanti ci si logori troppo. Nella prima parte di gara, nelle tappe senza troppe difficoltà, il gruppo va abbastanza tranquillo e i minuti si accumulano. Poi inizia il gioco tattico. Il gruppo comincia ad accelerare ma non ha reale intenzione di riprendere la fuga, solo controllarla. Chi è dietro sa che se avvenisse troppo presto il ricongiungimento poi ci sarebbe da fare altra fatica, nuovi corridori scatterebbero e sarebbe tutto da rifare. Allora si lasciano i fuggitivi davanti tenendo a bada il vantaggio perché siano sempre “a tiro” per riprenderli al momento giusto.
Se la tappa è per velocisti, pianeggiante, sarebbe un suicidio tattico far arrivare la fuga.
Anche chi è in fuga sa questo e regola la tattica di conseguenza, perché ok la vetrina della fuga davanti alle telecamere, ma se l’azione fosse pure coronata dal successo…
E allora davanti si ragiona nel modo opposto: se il gruppo non vuole venirci a riprendere, rallentiamo. Andiamo a un passo che ci permetta di risparmiare le forze il più possibile così da averne per il finale.
Non è raro, a questo punto, che la corsa prenda una piega strana. Diventa una gara a… chi va più piano. Davanti rallentano per risparmiarsi, dietro rallentano per non riprenderli troppo presto. Un effetto fisarmonica che dura finché dalle ammiraglie, via radio, non arriva l’ordine di cominciare a muoversi. E per riprendere i fuggitivi bisogna farsi i conti bene tatticamente. Il gruppo dà una prima accelerata per “assaggiare” la condizione dei fuggitivi. Quando la fuga vede ridursi il vantaggio, a sua volta, accelera e si vede come sono le condizioni davanti. Qualche corridore, stanco per i chilometri al vento che la fuga ha già fatto, inizia a perdersi. E se non si è in tanti davanti si fa dura resistere. Altre volte le cose vanno meglio e si regge di più. Col risultato che a quel punto la corsa diventa “vera” e un confronto di forze tra gli atleti in fuga e le squadre dei velocisti.
Tattica rischiosa però per chi deve chiudere sui fuggitivi perché se il calcolo è fatto con poco margine di errore rischia che salti tutto per qualche imprevisto. Basta un caduta che faccia rallentare il gruppo perché la fuga possa avere molte più probabilità di arrivare al traguardo. È successo anche nella tappa di oggi, l’ultima olandese del Giro 2016, quando il sudafricano Johan Van Zyl è stato ripreso a poco più di un chilometro dal traguardo. Ultimo a dissolversi di una fuga che pure, ad un tratto, era sembrata impensierire un gruppo che tirava e frenava nella strada che si allargava e si stringeva nel circuito finale prima del traguardo di Arnhem.
Altre volte la fuga è arrivata al traguardo, con gloria massima dei fuggitivi e buio tecnico-tattico degli inseguitori. Perché se un velocista lascia scappare così una tappa fa quasi peggio del calciatore che sbaglia il rigore decisivo.
E comunque, sudafricano o meno, oggi l’arrivo di una fuga così ci sarebbe piaciuta moltissimo. Se non altro per dire che la tattica ok, riempie le ore di corsa che sembrano noiose così senza ragionarci, ma vedere una corsa aperta a tattiche estemporanee dei corridori e meno studiate a tavolino sarebbe un sapore che nel ciclismo moderno manca un po’.
GR