Gli episodi di un lungo weekend a gareggiare nella Haute Route Ventoux, prova a tappe amatoriale con triplice salita al “monte calvo”. Un’organizzazione di alto livello e un ambiente multi razza con ciclisti dai cinque continenti fanno di questo evento qualcosa che vale la pena di raccontare. E infatti…
Non è una granfondo, è qualcosa di più. È tre volte di più. Già salirci una volta è da impresa, raddoppiare puoi raccontarlo con l’epica che più ti aggrada, ma scalare tre volte il Mont Ventoux in un lungo weekend non la puoi far passare come una cosa normale. E infatti non lo è, perché il format messo in piedi da Haute Route è qualcosa di particolare: gare a tappe di tre o sette giorni (si confermo, anche sette giorni), in posti iconici (e il monte ventoso lo è) come fossimo dei professionisti su strada (un po’ crediamo di esserlo), ma con lo spirito competitivo di chi in fondo vuole solo giocare a fare il campione.
Persino il vate ci salì
E chissà se i pro su strada provano gli stessi brividi quando dal villaggio di Bèdoin volgono lo sguardo a nord e la loro vista si blocca di fronte a uno scherzo della natura come il Ventoux: in una pianura rigogliosa di viti e lavanda, spunta solitario questo monte che non raggiunge i 2.000 metri, ma che per conformazione e disegno, ha ispirato grandi imprese. A iniziare dal Petrarca che con una lettera conosciuta come “Ascesa al Monte Ventoso”, raccolta nelle Familiares, narra l’ascesa del Mont Ventoux nell’aprile 1336 compiuta dal poeta con suo fratello Gherardo, fino alle gare di auto di inizio secolo, con macchine dai nomi universali dei motori, come Bugatti, Alfa Romeo, Benz, Auto Union, Maserati. Ma il Ventoux oggi è il palcoscenico di imprese a pedali: la prima volta il Tour de France ci passò nel 1951 ma per vedere un arrivo tra le pietraie della sommità bisogna aspettare il 58 con il successo di Charlie Gaul su Bahamontes e Anquetil. Insomma, mica noccioline.
E noi pedaliamo qui, proprio qui dove si sono consumati drammi e successi, sofferenze e gioie. Tutti sanno di Tom Simpson e della sua triste vicenda, ma gli annali del ciclismo ricordano anche un Eddy Merckx svenuto all’arrivo e il pronto intervento dei medici con l’ossigeno. Credo fosse il 1970.
A lottare con raffiche di vento
Così per tre giorni dovremo misurarci con questo Moloch del ciclismo, un monumento caduto, non si sa come, in questo paesaggio spazzato dal mistral, che nella prima tappa di 106 chilometri, costringerà gli organizzatori ad anticipare il traguardo allo chalet Reynard a 1.417 metri. In vetta le raffiche superano i 130 km orari, ed è troppo pericoloso, ragion per cui si opta per un “arrivus interruptus” a cento chilometri. Prima, però, il tracciato ci ha portato a spasso per la campagna provenzale che in ottobre si colora di un foliage intenso e melanconico a sottolineare la passione che tutti dovranno conoscere lungo i col di Trois Termes e Liguière prima di giungere ai piedi del Ventoux e affrontare la sfida.
Il secondo giorno è quello della prudenza, perché ci aspettano 140 chilometri da pedalare in circolo ai piedi della montagna, come fossimo lupi che circondano la propria vittima, e la assaltano nell’erta finale di 20 chilometri. Non sarà una giornata facile. No, per niente. Infatti, quelli che succhiano la ruota per gran parte della giornata, sanno perfettamente che ogni secondo al vento è un secondo in più di dolore in salita. Si formano gruppi spontanei multi lingue; io, per esempio, mi trovo con una dozzina di ciclisti da ogni parte del globo, compreso Jacques, un lussemburghese che in mio onore ci chiamerà il “gruppetto” ma con una pronuncia che più o meno fa così: ‘grupeto’. Il consorzio di 12 ciclisti di 10 nazioni (la bandiera sul dorsale aiuta non poco nel riconoscere la provenienza….) ben presto si scioglierà alle prime rampe del Ventoux affrontato nel suo versante nord occidentale.
Quel souvenir che tanto desidero
Lo sguardo è fisso sull’asfalto, ma a volte cade sulla pietra a bordo strada, l’inconfondibile cippo con la colorazione bianco-gialla, tipo quello che dice Sommet à 14 km e più sopra Pente à 12%. Sono numeri che cambieranno poco nel corso della scalata, solo il chilometraggio scenderà mentre per la pendenza saranno solo variazioni sul tema: 13%, e poi 11%, e ancora 14%, di nuovo 12%. E così via. Quando mancano quattro chilometri alla fine, la vista dell’osservatorio, il suo edifico bianco che si scaglia nel cobalto del cielo, sono le ultime stazioni di questa via crucis ciclistica. Dalla cima però la vista ripaga con la giusta moneta ogni sforzo della giornata. Al rifugio compro un cippo biancogiallo in miniatura: adesso sta lì, sugli scaffali in ufficio.
L’assordante silenzio della pietraia
L’organizzazione Haute Route è rodata e perfetta, maniacale nella cura dell’immagine di un ciclismo che vuole essere serio e sobrio ad un tempo. Colpisce, per esempio, che ai ristori così come all’arrivo, gli addetti scarichino numerose rastrelliere per le bici, e non c’è bisogno di chiedere ai ciclisti di infilarle lì. Non c’è bisogno. Sono tutte lì. I nostri zaini sono stati ordinatamente archiviati nella zona sottostante l’arrivo: ci cambiamo e beviamo una tazza di zuppa calda, prima di rientrare in albergo, ognuno con la propria bici. Io lo faccio non prima di essermi fermato per pochi secondi davanti alla stele dove Simpson fece le ultime e fatali pedalate della sua carriera. Tutto intorno la pietraia silenziosa viene accarezzata dal vento. Ogni cosa qui sembra immobile anche se tutto sembra respirare un rantolio di crudele sofferenza. Prendo la bici e lentamente scendo verso la pianura attraversando un bosco di larici che dal 2013 è diventata la maison del lupo, ricomparso sul Ventoux come per magia. Un raduno di Ferrari, rosse e scintillanti come solo le macchine del cavallino sanno essere, mi riportano alla dura realtà che dove c’è montagna ci sono auto, moto e ciclisti che devono convivere. Anche qui in Francia, non solo a casa nostra. Un massaggio al quartier generale di Bèdoin e tutto sembra essere più bello, la vita dopo che ti hanno messo le mani sulle cosce sembra più facile e la serata trascorre a bere una generosa birra bionda.
La lotta contro il tempo e le percentuali
Domenica, terza e ultima tappa. La cronoscalata! Ventuno chilometri da bere tutti d’un fiato. Nel parterre prima del via osservo una volta ancora l’eleganza dei ciclisti inglesi, con abbigliamento tinta unita di ultima generazione. Fa un freddo becco alle 8.00 della mattina e loro sono in pantaloncini e maglietta.
Il countdown ci porta uno ad uno alla partenza. C’è persino la rampa e il giudice che davanti al tuo naso scandisce con le dita che scompaiono four, three, two, one…go. Come tutte le cronometro, si parte con un minuto di distacco. Che ansia. L’inquietudine costante per non essere superato. L’angoscia di non riuscire a raggiungere quello che ti precede. Superi e vieni superato senza soluzione di continuità. È un moto perpetuo sul terzo versante del Ventoux, diciamo, quello originale, quello del Tour de France. La pressoché totale assenza di tornanti trasforma questa strada in una infinita rampa di garage. Capisci la durezza del percorso perché quando spiana, vuol dire che la strada scende al 9%, altrimenti è sempre e solo a due cifre: 10, 11, 12,13 per cento. Forse anche di più. Gli inglesi, intanto, hanno diffusamente adottato la strategia del loro Froome, e mulinano agili le gambe: molti di loro hanno il 34×32. E probabilmente è la scelta giusta. Lo capisco dalla contabilità di quelli che mi passano, ben superiori a quei pochi cadaveri che ho superato. Sbuco dalla foresta a quota 1.400 metri per affrontare gli ultimi 500 metri di dislivello che taglia la pietra, ma vedo una ragazza con decine di medaglie infilate nell’avambraccio sinistro che mi grida di fermarmi. Ancora vento in vetta, e ancora la triste decisione di anticipare il traguardo. La ragazza prende una medaglia e me la infila al collo. Lei sorride, io pure. Io però molto più di lei.
Per chi volesse saperne di più sulla Haute Route www.hauteroute.org
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