19 mag 2018 – A essere spettatori del ciclismo ci si innamora della fatica. Anzi no, non della fatica, ma di chi la interpreta. E quando la fatica prende forma non importa chi sia il protagonista, sa di eccezionale e il pubblico lo riconosce e applaude.
Ieri la fatica bella ha preso la forma di Chris Froome in un contrappasso che torna a ripetersi con questo corridore. Ricordate quando lo scoprimmo discesista in una tappa del Tour de France di due anni fa? Mise in cassaforte la corsa proprio con un attacco dove non ci saremmo aspettati. Lui che staccava tutti in salita ma poi, al momento di andare giù, doveva difendersi come poteva, all’improvviso divenne discesista affilato e pericolosissimo. Dimostrò che discesisti si può pure diventare con l’impegno e la volontà. E mostrò un lato umano che lo fece apprezzare tantissimo: si dimostrò capace di inventare un attacco inaspettato in corsa.
Sullo Zoncolan, in fondo si è ripetuto e si è fatto apprezzare di più proprio perché si era presentato al Giro nel modo peggiore: una questione antipatica pendente sulla testa (dove avrà pure fatto la parte del raccomandato, ma l’UCI con le sue nebbie e contraddizioni fa diventare la questione un boomerang per tutto il movimento). Era partito male e stava proseguendo peggio, con quella caduta prima della cronometro e l’altra scivolata maldestra in salita di qualche giorno fa. Qualcuno aveva sorriso pure: non è il Froome che vince il Tour questo. Un campione forte diventa anche fortunato. Tutto l’opposto.
Lui ha mandato giù e digerito. Non si è fatto prendere dal nervosismo che ok l’esperienza, ma ce ne vuole di carattere.
Nel suo silenzio un po’ britannico ha ricacciato dentro il fastidio e l’urlo che avrebbe voluto fare. Ha concentrato le energie fisiche e morali sulla salita più dura, non ha perso concentrazione quando gli altri acceleravano. Ha fermato il tifoso invadente sollevando un braccio e l’indice, lentamente: zitto e fermo lì.
Poi ha accelerato in quel modo scomposto che lui sa rendere così micidiale, tanto da lasciare indietro anche Yates che oggi, per la prima volta, abbiamo visto a tutta veramente e crollare dopo il traguardo. Mica poco per uno che fino a ieri è sempre apparso pedalare con facilità e scioltezza dove gli altri solo sembravano soffrire.
Però quel chilometro finale è stato esaltante, con i due così vicini che sembrava davvero un niente per Yates rientrare. Froome non si è girato nemmeno una volta. Ha continuato a ciondolare con la testa in su e in giù a cercare i dati del misuratore di potenza oppure ha solo guardato la ruota anteriore come a pregarla di fare più in fretta possibile. Denti stretti e sofferenza che si intuiva. Dietro gli occhiali a specchio si è intravisto l’uomo e quando Froome vince così diventa umano e dà un colore diverso anche a tutta la sua storia. Bravo.
Ancora di più: si è concesso alle interviste in un italiano migliore del solito, ha fatto defaticamento con la bicicletta rivolta al pubblico, quando troppe volte abbiamo visto gli Sky scaldarsi alle cronometro con le spalle alla gente.
In fondo è questo che chiede il popolo del ciclismo: non uno che sembra vincere in automatico, ma che sappia far vedere il carattere quando pedala e che tiri fuori qualcosa in più che vada oltre la forza fisica. E allora diventa bello anche nel suo stile dinoccolato e insolito. Al punto che finisci pure per perdonargli qualcosa. E ci siamo trovati tutti a tifare per lui in quell’ultimo chilometro.
Intanto, dietro, ogni corridore aveva la sua sofferenza sparpagliata e in caduta libera su una strada che fa venire l’acido lattico anche a farla a piedi. Quando le pendenze sono così esagerate (oltre il 20 per cento) si dice che si vada su solo di forza, ma oggi Dumoulin e Pozzovivo hanno dimostrato che ci si può pure ragionare. L’olandese è salito su regolare sembrando quasi disinteressato agli avversari. Sapeva quale fosse la sua via per rendere al meglio e l’ha percorsa con sicurezza. Facile a dirsi, difficile restare calmi mentre intorno scattano e vanno via. La sua tranquillità lo ha premiato con un ritardo contenuto a dispetto dei suoi chili in più rispetto ai leggerissimi avversari.
Anche Pozzovivo ha saputo gestire la sua salita. Conoscendo la strada si è lasciato il finale da fare a tutta e si è presentato sul traguardo a soli 23 secondi da Froome. Bravo anche lui anche se per vincere il Giro ci vuole altro: i minuti di vantaggio sul traguardo, non i secondi di distacco da limare in salita. Se il suo terreno è la salita è lì che deve fare la differenza. Lo aspettiamo su quel profilo micidiale che oggi porta a Sappada? Adesso è il momento di cominciare a fare i conti con le forze rimaste nelle gambe per tutti e i valori non sono più scontati.
Ci sarà altra fatica da applaudire e i campioni sanno come interpretarla. Il pubblico, ci potete scommettere, saprà premiarli tutti.
GR