10 dic 2017 – È una sfida nella sfida, c’è da dirlo, questo Giro d’Italia 2018 che è ancora lontano ma già a cinque mesi dal via fa discutere un bel po’. Una sfida e una scommessa, quella della partenza da Israele e da una Gerusalemme contesa tra due parti e divisa oppure no, a seconda che si voglia prendere per buono il punto di vista Israeliano che vede Gerusalemme unica e capitale del suo stato o quello dei Palestinesi che vogliono come loro capitale la parte Est.
Un pasticcio in cui gli Stati Uniti, al momento, stanno pure gettando benzina sul fuoco visto che di recente il presidente americano Donald Trump, ha deciso di seguire la linea israeliana che riconosce Gerusalemme unica e capitale israeliana,.
Una mossa che ha creato tensione ancora di più in una zona politicamente calda e complicata e dove il Giro, che pure dichiara di voler restare fuori da questioni politiche, come è giusto che sia, ne viene inesorabilmente coinvolto e non rimanerne nemmeno indifferente. Lo ha appena dimostrato alla presentazione quando gli organizzatori sono corsi ai ripari modificando la denominazione “Gerusalemme Ovest” in una semplice “Gerusalemme” che, col senno di poi, si poteva mettere sin da subito rimanendo più sul generico. Una velocità di adeguarsi al diktat israeliano che ha il coltello dalla parte del manico visto che il Giro lì ci va a suon di soldi prima anche che di buoni propositi (e dai che non c’è niente di male a dirlo).
E sì, perché i propositi sono belli davvero. Il vestito con cui è stata confezionata questa trasferta lontana e per molti inopportuna è proprio quella di unire le capitali della cristianità, da Gerusalemme a Roma. Mica male l’idea e ancor più bella la dedica a Bartali.
Certo è però che se pure gli organizzatori parlano di sport come neutrale rispetto alle questioni politiche è altrettanto vero che sarà proprio così che lo presenterà Israele: un investimento per un ritorno politico e non si scappa. La situazione è ingarbugliata di storia e rivendicazioni.
Ci vorrà molta diplomazia a gestire il tutto, insomma, sperando che nel frattempo la situazione internazionale vada a sbollire. Dietro l’angolo c’è anche una questione sui diritti umani di cui tanti chiedono conto a Israele. Abbiamo poco più di 140 giorni di tempo perché questo accada. Agli organizzatori sta il compito arduo di barcamenarsi al meglio evitando scivoloni. E chissà che allora il Giro, come Bartali, non possa essere davvero uno strumento di pace. Tutto sommato questa è la sfida più bella da questo punto di vista, anche se decisamente ardua. Non ci aspettiamo certo che il Giro possa risolvere questioni politiche in piedi da decenni, ma che sia almeno un segnale di distensione (poi sarà da vedere cosa ne pensano le squadre arabe).
GR