29 ago 2017 – Leggere di un top team come la Cannondale Drapac in crisi, con un’operazione di crowdfunding attiva sul web, colpisce veramente e fa pensare. A un anno dalla chiusura dell’ultimo team Italiano, la Lampre, stiamo ancora parlando dello stesso problema.
Un problema che nasce da lontano: dalla stessa creazione del Pro-Tour, diventato poi World Tour. Le basi sulle quali sono state gettate le fondamenta del ciclismo moderno sono perlomeno ambigue. La volontà dichiarata era quella di ridurre il doping, portare il ciclismo ad un livello di eccellenza d’immagine, garantire stipendi sani ai corridori ed al personale, globalizzare il ciclismo a livello Mondiale dando importanza a gare di paesi non Occidentali. Ma la realtà dei fatti è stata: per iscrivere la vostra squadra nel ProTour dovete versare una fidejussione bancaria annuale di 4 milioni di euro, garantita per almeno 3 anni di durata. Moltiplicata per le 18 squadre che si sono iscritte al primo anno, significa in soldoni che l’UCI aveva 72 milioni di euro versati in banca, di proprietà dei team, certo, ma che regalavano un certo potere. Di sistemi di punteggio per team o corridori per entrare nel Pro tour nemmeno l’ombra. Malignamente verrebbe da pensare che l’obiettivo fosse solo il denaro. E così si potevano vedere squadre come la Bouygues Telecom che con pochissimi piazzamenti e nemmeno una vittoria partecipava al Tour de France, mentre il team La Boulangere con 18 vittorie, alcune anche prestigiose e firmate dall’allora nastro nascente Sylvain Chavanel, stava a casa a guardare la televisione.
Inutile dire che lo sponsor ha deciso di ritirarsi. È stato palese che il ciclismo non offriva meritocrazia.
Da allora fondamentalmente è cambiato solo il nome: da Pro Tour a World Tour. Le regole del gioco sono pressoché le stesse. Per gli organizzatori di gare è stato un terremoto: di colpo corse poco tecniche e con poca gloria come il Giro di Polonia sono diventati appuntamenti importanti, mentre pilastri del ciclismo come il Giro dell’Appennino – esistente dal 1934 – viene declassato.
Per le squadre la parola “World” è un costo spropositato: corse in Cina, negli USA, in Europa, e poi in Australia. Ogni giorno un trasferimento di mezzi e corridori. L’obbligo poi di assumere un numero minimo di atleti obbliga a spese altissime, non solo per gli stipendi, ma soprattutto perché obbliga i team ad effettuare almeno 2, ma più spesso 3 gare contemporaneamente per non tenere ferma la squadra.
Che la corda sia molto tirata è visibile dagli sponsor attualmente in gioco: sceicchi, petrolieri, banchieri. Il ciclismo non è uno sport chic come la Formula 1 o il golf. Non ha la sua Mecca sul porto di Montecarlo, ma sui tornanti dello Stelvio. Il ciclismo è fatica e sudore, dolore e sangue. Quanti sceicchi, che provengono da zone dove non si sa nemmeno cosa sia la bicicletta, saranno disposti a sponsorizzare il ciclismo? Sembra quasi una politica a breve termine del tipo “prendi tutto il possibile ora e poi scappa”. Forse un piano di ridimensionamento, per riportare tutto ad un livello più umano, sarebbe da valutare.
Ma intanto per il 2018 cosa si fa? Si pensa di far partire il Giro d’Italia da Israele. Mettendo sempre la primo posto fra i valori del ciclismo il denaro.
Stefano Boggia (www.daccordistore.it)
Concordo con questa triste descrizione, purtroppo.