29 lug 2018 – Esistono due G questa sera.
Da domani, forse non ci saranno più: forse avremo solo “Geraint Thomas”.
Può succedere, quando vinci il Tour de France. Quando la tua esistenza e il tuo nome escono dai confini noti e presidiati dagli appassionati di ciclismo per diventare patrimonio globale, di tutti. Questo non vuol dire che sia tu a cambiare: è il mondo intorno a te a farlo. È la percezione di quel che sei a mutare, negli altri.
Ma, almeno in questo caldo pomeriggio parigino, possiamo guardare e interpretare l’ultima tappa della Grande Boucle attraverso due versioni dello stesso corridore: quella “prima” e quella “durante” la grande vittoria.
Perché Geraint Thomas ha già raccontato al mondo cosa significhi per un ciclista arrivare a Parigi con la maglia gialla. Non la sua, ma quella di un compagno di squadra.
Ha descritto sensazioni ed emozioni nel suo libro “The World Of Cycling According to G” (2015), che ho già citato in occasione della dodicesima tappa. Stasera, per finire bene, dobbiamo partire proprio da lì: perché ci arrivano tutti, a Parigi, insieme a lui. Tutti i 145 corridori sopravvissuti a queste tre settimane davvero difficili. Talvolta, addirittura inquietanti.
«Correre sugli Champs-Élysées è il nostro equivalente dell’ultimo giorno di scuola. C’è un senso di felicità e liberazione, di “ecco le vacanze”: inizieresti a lanciare uova e farina se non ti sentissi troppo esausto […] Se sei completamente distrutto dalla fatica, resti in coda al gruppo. Se stai in prima fila, sei comunque distrutto. Immaginate di prendere un’arancia essiccata e di provare a spremere un’ultima goccia di succo: è così che ti senti sugli Champs-Élysées», ha scritto G.
Sarà così anche oggi, per tutti, ma soprattutto per i pochi velocisti rimasti: l’ultima occasione per vincere una tappa che è anche, e soprattutto, una passerella celebrativa.
Si parte da Houilles, Comune posto a nord-ovest di Parigi, in una parte molto verde e abitabile dell’area metropolitana, e si fa un largo giro intorno a una delle anse della Senna: 61 chilometri per arrivare al circuito finale nel cuore della capitale. Sono previsti otto giri sugli Champs-Élysées, per una distanza finale di 116 km.
Chi segue il ciclismo con animo da “tifoso”, solo per avere classifiche, vincitori e vinti, spesso non apprezza la frazione conclusiva del Tour. La trova inutile e noiosa. Per me, invece, è sempre una delle più interessanti. E non solo perché si ha la possibilità di ammirare Parigi da “punti di vista” inediti o rari, quelli che solo una grande corsa ciclistica può offrire. C’è anche una ragione simbolica.
L’ultima tappa del Tour, anno dopo anno, costituisce il momento in cui il ciclismo, i ciclisti e le loro biciclette “conquistano” la grande città. È un messaggio che viaggia per il mondo, attraverso le televisioni e il web. Ed è potente.
Restituire il “diritto alla città” e il “diritto alla strada” a chi si vuole muovere tutti i giorni in bicicletta (e a piedi) è uno degli obiettivi fondamentali per chi lavora per la mobilità sostenibile del futuro. Come me. Le grandi corse del ciclismo professionistico sono un medium importante per veicolare l’idea che ciò è non solo possibile, ma anche necessario.
A Parigi lo sanno bene. Anne Hidalgo, sindaco della metropoli francese dal 2014, si era data come obiettivo quello di trasformare la città nella capitale mondiale della mobilità ciclistica, entro il 2020. Non ce la farà, probabilmente, ma questo non significa che abbia fallito: Parigi migliora i propri indicatori anno dopo anno. Nel 2017 era tredicesima nella “classifica” (elaborata da copenhagenize.eu) delle città più ciclabili del mondo. La terza tra le grandi metropoli, dopo Tokyo e Berlino. Vedremo poi i risultati del 2018.
Se vi interessa l’argomento, provate a cercare una città italiana nelle prime venti posizioni di quel ranking. Non la troverete. Forse anche in Italia dovremmo pensare a rendere Milano (o Roma) la sede stabile dell’ultima tappa del Giro. Nonostante gli errori e i problemi organizzativi visti nelle ultime tre settimane, forse c’è ancora qualcosa che possiamo imparare dal Tour de France.
Solo G ha già imparato tutto, da tempo. Soprattutto, come si festeggia la vittoria di un Tour: «si comincia sul bus della squadra, con le mogli/fidanzate e le birre, non sempre in quest’ordine. Se finiscono le birre, ti rivolgi agli australiani: loro non si sognerebbero mai di restare senza. E se ci sono pizze da mangiare, tira fuori il gomito come un velocista e combatti: non è il momento giusto per arrivare secondo».
In realtà si comincia anche prima a festeggiare, con la tradizionale flûte di champagne bevuta in corsa, a beneficio dei fotografi. Accade oggi alle 3:30 pm, ora di Cardiff. Tutto il team SKY si schiera con i bicchieri in mano. A distinguere G dai compagni non è la maglia gialla, perché lui è uno di loro da sempre. A distinguerlo sono gli occhiali da sole con la montatura bianca un po’ rétro: il suo trademark da molti anni. Oggi festeggia anche l’azienda che li produce: ordinativi in crescita, senza dubbio.
A distinguerlo, qualche chilometro dopo, è anche la bandiera del Galles che regge sopra la testa, pedalando senza mani. Orgoglio.
La tappa va a velocità di crociera, si chiacchiera in gruppo. Si sorride. Come soldati sopravvissuti alla guerra. C’è anche Lawson Craddock, eroico texano che corre con una frattura alla scapola subita nella prima frazione: è l’ultimo della classifica, fin dalla Vandea, ma non importa. Conta solo arrivare a Parigi e finire il Tour, ciò che ti definisce come corridore professionista: one of the boys. Potrai raccontarlo a figli e nipoti. Roba che io non posso capire davvero, fino in fondo, e che pertanto rispetto profondamente.
Si arriva nel centro di Parigi e il bel clima che si respira, in gruppo, determina un cambio di programma: non sarà la squadra della maglia gialla a entrare per prima sugli Champs-Élysées, come da tradizione. Sarà l’immenso Sylvain Chavanel, che oggi chiude, almeno simbolicamente, una carriera lunga diciotto anni. Una vita in fuga, la sua: la solitudine come compagna di viaggio. Anche questo ti definisce.
Il gruppo gli lascia un buon margine, la TV lo riprende a lungo. Tutto meritato.
Poi inizia la corsa.
Silvan Dillier, Taylor Phinney, Michael Schär, Damien Gaudin, Nils Politt e Guillaume van Keirsbulck vanno in avanscoperta a 7 giri (41 km) dalla fine. Guadagnano 40 secondi e mettono in dubbio l’arrivo in volata.
Poi il gruppo inizia a inseguire e risolve la situazione.
Si arriva all’ultimo giro, l’ultimo passaggio intorno all’Arc du Triomphe: la rotonda più bella del mondo. Il gruppo inizia ad allungarsi, cominciano le grandi manovre per la volata.
Ma Yves Lampaert non ci sta e sorprende tutti, quando mancano 800 metri al traguardo. Una mossa da finisseur come poche altre. Quasi gli riesce. Lo riprendono in vista dello striscione finale.
Parte la volata e vince Alexander Kristoff.
Poi arriva G, in maglia gialla. Alza il pugno in aria, educatamente. Gli si affianca Chris Froome, si sorridono e si danno pacche sulle spalle.
Stasera vivranno lo stesso dialogo raccontato da G nel suo libro, in occasione di una delle precedenti edizioni del Tour, ma a parti invertite:
«- Ti voglio bene, man!
– Yeah! Tu sei una leggenda!
– Ci facciamo uno di quei drink flambé?
– No. Ce ne facciamo quattro!».
Finisce così il Tour de France: con il breve discorso di G, o “Geraint Thomas”, come molti scriveranno domani, dal palco delle premiazioni.
È emozionato. Ringrazia tutti. Poi molla il microfono e lo fa volutamente cadere per terra.
Come a dire: lasciatemi in pace, almeno per un po’.
Paolo Bozzuto
(docente di urbanistica al Politecnico di Milano, autore del libro “Pro-cycling Territory“)