di Guido P. Rubino
17 mag 2021 – A volte è come chiudere gli occhi. Altre te ne rendi perfettamente conto, come quando, scendendo le scale, senti un piede scivolare via. E fai addirittura in tempo a pensare alla suola bagnata, accidenti, che avresti dovuto appoggiare con più cautela. Prima del botto.
Ecco, in bicicletta avviene press’a poco così. Oppure no.
Prendete Landa, investito da Domborwski che ha maledettamente urtato l’addetto alla sicurezza. Pedalava dritto lui, strada libera, prima di sentire quella spinta insostenibile scaraventarlo giù. Ecco, lì chiudi gli occhi e neanche te ne accorgi. E a terra fai la conta dei danni. Accidenti che fitte. Scosse elettriche come coltelli. Se il ciclista non si rialza subito sta male, si è fatto male. Altrimenti sarebbe già in piedi. Invece torna giù, urla perché a certi dolori non resisti, in un attimo arriva la disperazione perché lì, a terra, è finita la tua corsa e non puoi farci più niente. Con l’istinto stai ancora pedalando, poi cos’è successo? Non è possibile che sono a terra, no no, un attimo fa ero in bici, perché ora no? Ci vuole qualche momento per rendersi conto che in quel battito di ciglia è cambiato tutto.
Altre volte, invece, sei padrone del mezzo. Cavolo, ci sei nato in bicicletta e della bicicletta senti tutti i comportamenti, come se le tue terminazioni nervose proseguissero nei filamenti di carbonio del telaio, intrecciate con la fibra. Senti la pressione del sangue che pulsa fino alle orecchie nell’adrenalina di un gesto di cui ti descrivono tutti un maestro e ti danno anche un po’ del matto. Percepisci la pressione delle gomme, senti come si aggrappano alla strada. Graffi sulla pelle sensibile. Tu e la bicicletta, organismo unico, vivente.
Per quello quando osi di più sei spavaldo, non è nemmeno questione di anni e spensieratezza. Volete che Nibali, al Giro di Lombardia, a 35 anni, non avesse in mente il sorriso della figlia mentre si buttava giù in discesa a tutta, fino a mettere in difficoltà quel ragazzino incredibile, Evenepoel, che poi è andato giù dal ponte? No no, è proprio istinto, intuizione, bravura.
E l’istinto si fonde con i riflessi. Per quello quando la bicicletta di Matej Mohoric ha iniziato a scivolare dalla ruota posteriore lui ha automaticamente corretto la traiettoria, bilanciando col peso, girando il manubrio dall’altra parte. È un attimo, istinto appunto, riflessi di un gatto. Solo che l’imbarcata, accidenti, era ampia e per riprenderla c’è voluto un bel po’. Abbastanza da aver rimesso la bici in equilibrio sì, ma sparata contro l’interno della curva, su quel muretto, marciapiede, chiamatelo come volete, di cemento.
Ecco, Matej Mohoric forse in quell’attimo ha pure pensato che sarebbe stato meglio scivolare e basta. Un po’ di carne sull’asfalto ma niente muretto. A saperlo.
Il resto è un capitombolo che non si può controllare, la testa sull’asfalto, il corpo in su come se fosse così leggero, più di quello di un ciclista, che già pesa poco.
Se c’è un dio del Giro, un dio del ciclismo, in quel momento ha messo una mano pietosa. A che quell’acrobazia non divenisse tragedia. Un’analisi approfondita ci potrebbe dire che è stata questione di centimetri, come in una volata, ma più importante. E allora il colpo, l’angolazione, la strada, sono andati così, tanto che Mohoric si è seduto sul guard rail per pensare un attimo, rimettere a posto le idee da quella nebbia che non c’era prima, a inizio discesa. Sì, fa male, guarda la bici com’è spaccata, dev’essere stata una bella botta accidenti, ma sono in piedi, mi muovo. Dai, passami un’altra bici che questa non serve più, scusate, l’ho distrutta.
Riparto.
Riparto?
No, aspetta, è meglio che mi fermi un attimo, accidenti che nebbia, non si vede niente.
Sì, dio misericordioso del Giro e del ciclismo, ci hai fatto un regalo senza pagare pegno, ce n’è già uno che celebriamo ogni anno il 9 di maggio a ricordarci quanto siamo piccoli.