7 mar 2019 – C’è una bella intervista a Michael Woods, corridore della EF Education First, che mi è capitato di vedere qualche tempo fa su Velonews, dove il corridore parla dei suoi problemi tecnici, di guida nel gruppo, lui che da runner è passato al ciclismo compiendo il miracolo di essere estremamente competitivo in due sport diversi, ma che si è trovato in gruppo con gente abituata a fare spallate fin dalle scuole elementari, quando lui usava la bici solo per gioco. Nell’intervista spiega quanto duramente ha dovuto lavorare per recuperare prima il gap tecnico dello stare in gruppo, poi quello delle discese.
Guardando il ciclismo in televisione è quasi impossibile rendersi conto quanto affinate siano queste tecniche fra i professionisti.
Ricordo di quando ho smesso di correre e dopo tre o quattro anni ho partecipato a una gara di amatori perché mi mancava un pochino la sensazione di stare in gruppo: il mio primo pensiero è stato che in realtà non ci fosse un gruppo. Gli spazi fra corridore e corridore erano enormi rispetto a quello che ero abituato, quando macinavo chilometri a volte anche con la spalla di un corridore a destra e l’altra a sinistra appoggiate.
La stessa cosa vale per la discesa. Io ebbi un esordio piuttosto fortunato tra i Pro, con un bel sesto posto già alla prima gara, allora un circuito in Liguria su strade piuttosto strette. Azzeccai la fuga giusta di un gruppetto di 10 corridori. L’andatura non scese mai sotto i 50, e Bo Hamburger – che poi vinse la gara – mi fece la ramanzina perché smettevo di pedalare in curva. Capii subito un punto di vista fondamentalmente diverso fra Under 23 e Professionisti: la curva per gli Under è un momento di riposo, si riprende fiato e ci si prepara per un bel rilancio post-curva. Per i prof la curva è una rottura di scatole perché spezza il ritmo.
Il prof pedala fino a quando non sente il pedale toccare in terra o vi è comunque molto vicino. Dopo un paio di mesi da prof, anch’io avevo i miei pedali belli graffiati nella parte esterna inferiore.
Woods ha colmato questo gap partendo dalla corsa a piedi. Un lavoro da vero campione, un qualcosa che io che ho iniziato a fare ciclismo all’età di sette anni mi immagino quasi impossibile da completare in età adulta.
I professionisti in discesa hanno una fluidità inimmaginabile per chi sta fuori. A volte sembrano lenti, perché sono composti, ma le velocità sono paurosamente alte. La velocità più alta che ho toccato io sono stati i 104 km/h in una discesa ripida, in rettilineo. Ero nella pancia del gruppo, perfettamente al centro, in mezzo a circa 150 corridori che andavano tutti alla stessa velocità, con un bellissimo suono di ruote che giravano nel vento e la sicurezza di essere tra professionisti che sapevano cosa facevano senza margine di errore.
Stefano Boggia (https://www.daccordicycles.com)