30 dic 2016 – Il naso lo precedeva sul traguardo di una certa distanza. Ferdi Kübler apparteneva infatti alla tribù dei Corridori dei Grandi Nasi, come Gino Bartali, come Fausto Coppi, ma anche come Andrea Carrea, detto Sandrino. Tutta gente che sembrava disegnata nella galleria del vento per tagliare meglio l’aria con i loro enormi rostri da contadini prestati alla bici.
Fino a ieri, lo svizzero Ferdi Kübler, nato il 24 luglio 1919 a Adliswil, distretto di Andelfingen, cantone di Zurigo, con i suoi novantasette anni suonati era il più vecchio ciclista vivente vincitore di un campionato del mondo e di un Tour de France.
Se n’è andato il 29 dicembre 2016. Ultimo scatto, ultimo strappo.
Naso a parte, Kübler è stato un primattore di quel formidabile cast che recitò, a cavallo del 1950, il film l’età dell’oro del ciclismo internazionale. Professionista dal 1940 al 1957, corse per la Cilo, per la Peugeot, con la Bartali e con Bartali nel 1949, con la Fréjus, insieme a Coppi con la maglia Carpano nel 1956, e dal 1948 al 1952, le stagioni migliori della sua carriera, con la squadra svizzera della Tebag. Tra il 1949 e il 1951 fu sempre sul podio del Campionato mondiale: secondo a Copenaghen nel 1949, dietro a Van Steenberghen e davanti a Coppi; terzo a Moorslede, nel 1950, alle spalle di Schotte e Middelkamp; e finalmente primo a Varese, nel 1951 beffando in volata gli italiani Magni e Bevilacqua.
L’anno prima aveva invece vinto il Tour de France, primo ciclista svizzero a vincere la corsa a tappe francese. Anche in quell’occasione il beffato fu Fiorenzo Magni, che si trovava al comando della classifica generale quando fu costretto ad abbandonare la corsa, insieme a tutta la squadra italiana, per solidarietà all’aggressione subita da Bartali da parte di alcuni spettatori nella tappa pirenaica Pau-Saint Gaudens.
Nel suo prestigioso palmarès altre vittorie nelle classiche come la Liegi-Bastogne-Liegi (1951 e 1952) e la Freccia Vallone, negli stessi anni; quindi cinque volte campione di svizzera su strada (consecutivamente dal 1948 al 1951 e poi nel 1954), tre volte vincitore del Giro di Svizzera (1942, 1948 e 1951), due volte al Giro di Romandia (1948 e 1951), per tre volte (1950, 1952 e 1954) la classifica generale del Trofeo Desgranges-Colombo – una specie di coppa del mondo che teneva conto dei piazzamenti nelle principali corse a tappe e nelle più importanti classiche della stagione più otto tappe al Tour de France; e poi tre volte la A traverse Lausanne (1941, 1942 e 1945), quattro volte il Giro del Ticino (1950, 1951, 1952 e 1954), il Giro del Lago Lemano (1952), il Gran Premio Industria e Commercio di Prato (1950), il Gran Premio di Lugano a cronometro (1950), la Bordeaux-Parigi (1953) e la Milano-Torino (1956).
In Svizzera aveva un antagonista, la sua bella copia. Se Kübler, col suo grande naso adunco era l’Aquila di Adliswil, il Cyrano della bicicletta, Hugo Koblet era “le pedaleur de charme”, il corridore fascinoso, bello e biondo, sempre a pettinarsi alla fine di ogni corsa. Un po’ come Coppi e Bartali, l’uno incarnava la modernità, lo stile, l’eleganza, l’altro la tenacia, il coraggio, la resistenza. Kübler finì anche nelle pagine della grande letteratura. Di lui parlano Roland Barthes in Mythologies che lo assimila, per via dell’abbreviazione confidenziale del suo nome, a un’eroe da epopea da chanson de geste; e Georges Perec, che lo elenca nei suoi Je me souviens e lo ricorda per la particolarità di tenere gli occhiali da corsa, in mica e con un laccio elastico, non alzati sopra la fronte o il caschetto, ma stretti intorno al braccio, sopra il gomito.
Kübler aveva una sorella, Ursula, più giovane di nove anni, che era una talentuosa ballerina prima all’Opéra di Zurigo, poi nella compagnia di Maurice Béjart e infine, con Roland Petit, ai Ballets di Parigi. Qui, nel 1950, quando il fratello vinceva il Tour, conobbe a un cocktail da Gallimard Boris Vian, che divenne suo marito nel 1954. Kübler, dunque, è cognato di Boris Vian.
Appesa la bicicletta al chiodo, Kübler ha fatto per qualche anno il direttore sportivo, poi ha aperto un negozio di fiori, un’agenzia di assicurazioni, ha lavorato nell’organizzazione del Giro di Svizzera. Per 28 anni a Sankt Moritz ha fatto anche il maestro di sci, provando a insegnare a sciare anche a Eddy Merckx: ma, dice lui, quello andava più forte in bici.
Kübler diceva di se stesso di essere matto. Perché, sosteneva, per fare i corridori bisogna essere matti. Lo chiamavano infatti Le fou pedalant, il Ciclista matto. Lo ricorda lui stesso, nelle pagine che Marco Pastonesi gli ha dedicato in I diavoli di Bartali (Ediciclo Editore, 2016): «Il ciclismo è sofferenza. Io soffrivo il freddo. Al Tour de France tutti dicevano di morire dal caldo, invece io correvo con la maglia di lana sulla pelle. Le corse erano dure, durissime, durissimissime: adesso radio corsa, ammiraglie, borracce, basta allungare una mano o alzare un braccio per chiedere e ricevere, noi dovevamo rubare. Per correre è indispensabile avere una volontà di ferro, anzi, di acciaio. Mangiare poco e spesso, soprattutto in corsa, ogni venti minuti: una volta l’80% era solido e il 20 liquido, oggi l’esatto contrario; una volta si divoravano riso, panini con il formaggio e il prosciutto, pollo arrosto. Lo stomaco dei corridori è senza fine. Nella mia borraccia solo tè nero, tanto zucchero e tanto limone. A casa solo latte, latte di mucca, invece Bartali e Bobet bevevano vino. Poi dormire presto di sera, svegliarsi presto di mattina, da 10 a 12 ore di sonno per notte. E grandi massaggi: sfortunatamente da massaggiatori uomini, il mio massaggiatore era Colombo, bravissimo. Infine, invece delle domestiche, i corridori hanno i gregari: Emilio Croci Torti non era il mio domestico, però neanche il mio gregario, lui era il mio tenente. Dormiva con me, mi regalava consigli, mi cambiava le gomme, mi sistemava la bici, e fino a 150 km correva per me, vicino a me, davanti a me, poi ciao, ci saremmo rivisti al traguardo. E quando rimanevo da solo, mi incitavo, dicevo “Ferdi, pedala per tuo figlio Andrea”, oppure nitrivo come un cavallo.
Per vent’anni ho vissuto soltanto di ciclismo: all’inizio della stagione andavo a Milano, acquistavo 200 gomme sufficienti per tutto l’anno, così non mi dovevo più muovere se non per allenamenti e corse. Facevo allenamenti durissimi, con passi di montagna, da solo, i miei amici dicevano “Ferdi, tu sei matto”, sette-otto ore senza scendere di bici, perché se scendi, non risali più. Mi piaceva soffrire, soprattutto se poi vincevo. Se invece perdevo, rimaneva soltanto la sofferenza. Ecco perché, per fare il corridore, bisogna essere matti.»
Qui sotto il mondiale varesino di Kübler e poi il Tour de France
Gino Cervi
30 dic 2016 – Il naso lo precedeva sul traguardo di una certa distanza. Ferdi Kübler apparteneva infatti alla tribù dei Corridori dei Grandi Nasi, come Gino Bartali, come Fausto Coppi, ma anche come Andrea Carrea, detto Sandrino. Tutta gente che sembrava disegnata nella galleria del vento per tagliare meglio l’aria con i loro enormi rostri da contadini prestati alla bici.
Fino a ieri, lo svizzero Ferdi Kübler, nato il 24 luglio 1919 a Adliswil, distretto di Andelfingen, cantone di Zurigo, con i suoi novantasette anni suonati era il più vecchio ciclista vivente vincitore di un campionato del mondo e di un Tour de France.
Se n’è andato il 29 dicembre 2016. Ultimo scatto, ultimo strappo.
Naso a parte, Kübler è stato un primattore di quel formidabile cast che recitò, a cavallo del 1950, il film l’età dell’oro del ciclismo internazionale. Professionista dal 1940 al 1957, corse per la Cilo, per la Peugeot, con la Bartali e con Bartali nel 1949, con la Fréjus, insieme a Coppi con la maglia Carpano nel 1956, e dal 1948 al 1952, le stagioni migliori della sua carriera, con la squadra svizzera della Tebag. Tra il 1949 e il 1951 fu sempre sul podio del Campionato mondiale: secondo a Copenaghen nel 1949, dietro a Van Steenberghen e davanti a Coppi; terzo a Moorslede, nel 1950, alle spalle di Schotte e Middelkamp; e finalmente primo a Varese, nel 1951 beffando in volata gli italiani Magni e Bevilacqua.
L’anno prima aveva invece vinto il Tour de France, primo ciclista svizzero a vincere la corsa a tappe francese. Anche in quell’occasione il beffato fu Fiorenzo Magni, che si trovava al comando della classifica generale quando fu costretto ad abbandonare la corsa, insieme a tutta la squadra italiana, per solidarietà all’aggressione subita da Bartali da parte di alcuni spettatori nella tappa pirenaica Pau-Saint Gaudens.
Nel suo prestigioso palmarès altre vittorie nelle classiche come la Liegi-Bastogne-Liegi (1951 e 1952) e la Freccia Vallone, negli stessi anni; quindi cinque volte campione di svizzera su strada (consecutivamente dal 1948 al 1951 e poi nel 1954), tre volte vincitore del Giro di Svizzera (1942, 1948 e 1951), due volte al Giro di Romandia (1948 e 1951), per tre volte (1950, 1952 e 1954) la classifica generale del Trofeo Desgranges-Colombo – una specie di coppa del mondo che teneva conto dei piazzamenti nelle principali corse a tappe e nelle più importanti classiche della stagione più otto tappe al Tour de France; e poi tre volte la A traverse Lausanne (1941, 1942 e 1945), quattro volte il Giro del Ticino (1950, 1951, 1952 e 1954), il Giro del Lago Lemano (1952), il Gran Premio Industria e Commercio di Prato (1950), il Gran Premio di Lugano a cronometro (1950), la Bordeaux-Parigi (1953) e la Milano-Torino (1956).
In Svizzera aveva un antagonista, la sua bella copia. Se Kübler, col suo grande naso adunco era l’Aquila di Adliswil, il Cyrano della bicicletta, Hugo Koblet era “le pedaleur de charme”, il corridore fascinoso, bello e biondo, sempre a pettinarsi alla fine di ogni corsa. Un po’ come Coppi e Bartali, l’uno incarnava la modernità, lo stile, l’eleganza, l’altro la tenacia, il coraggio, la resistenza. Kübler finì anche nelle pagine della grande letteratura. Di lui parlano Roland Barthes in Mythologies che lo assimila, per via dell’abbreviazione confidenziale del suo nome, a un’eroe da epopea da chanson de geste; e Georges Perec, che lo elenca nei suoi Je me souviens e lo ricorda per la particolarità di tenere gli occhiali da corsa, in mica e con un laccio elastico, non alzati sopra la fronte o il caschetto, ma stretti intorno al braccio, sopra il gomito.
Kübler aveva una sorella, Ursula, più giovane di nove anni, che era una talentuosa ballerina prima all’Opéra di Zurigo, poi nella compagnia di Maurice Béjart e infine, con Roland Petit, ai Ballets di Parigi. Qui, nel 1950, quando il fratello vinceva il Tour, conobbe a un cocktail da Gallimard Boris Vian, che divenne suo marito nel 1954. Kübler, dunque, è cognato di Boris Vian.
Appesa la bicicletta al chiodo, Kübler ha fatto per qualche anno il direttore sportivo, poi ha aperto un negozio di fiori, un’agenzia di assicurazioni, ha lavorato nell’organizzazione del Giro di Svizzera. Per 28 anni a Sankt Moritz ha fatto anche il maestro di sci, provando a insegnare a sciare anche a Eddy Merckx: ma, dice lui, quello andava più forte in bici.
Kübler diceva di se stesso di essere matto. Perché, sosteneva, per fare i corridori bisogna essere matti. Lo chiamavano infatti Le fou pedalant, il Ciclista matto. Lo ricorda lui stesso, nelle pagine che Marco Pastonesi gli ha dedicato in I diavoli di Bartali (Ediciclo Editore, 2016): «Il ciclismo è sofferenza. Io soffrivo il freddo. Al Tour de France tutti dicevano di morire dal caldo, invece io correvo con la maglia di lana sulla pelle. Le corse erano dure, durissime, durissimissime: adesso radio corsa, ammiraglie, borracce, basta allungare una mano o alzare un braccio per chiedere e ricevere, noi dovevamo rubare. Per correre è indispensabile avere una volontà di ferro, anzi, di acciaio. Mangiare poco e spesso, soprattutto in corsa, ogni venti minuti: una volta l’80% era solido e il 20 liquido, oggi l’esatto contrario; una volta si divoravano riso, panini con il formaggio e il prosciutto, pollo arrosto. Lo stomaco dei corridori è senza fine. Nella mia borraccia solo tè nero, tanto zucchero e tanto limone. A casa solo latte, latte di mucca, invece Bartali e Bobet bevevano vino. Poi dormire presto di sera, svegliarsi presto di mattina, da 10 a 12 ore di sonno per notte. E grandi massaggi: sfortunatamente da massaggiatori uomini, il mio massaggiatore era Colombo, bravissimo. Infine, invece delle domestiche, i corridori hanno i gregari: Emilio Croci Torti non era il mio domestico, però neanche il mio gregario, lui era il mio tenente. Dormiva con me, mi regalava consigli, mi cambiava le gomme, mi sistemava la bici, e fino a 150 km correva per me, vicino a me, davanti a me, poi ciao, ci saremmo rivisti al traguardo. E quando rimanevo da solo, mi incitavo, dicevo “Ferdi, pedala per tuo figlio Andrea”, oppure nitrivo come un cavallo.
Per vent’anni ho vissuto soltanto di ciclismo: all’inizio della stagione andavo a Milano, acquistavo 200 gomme sufficienti per tutto l’anno, così non mi dovevo più muovere se non per allenamenti e corse. Facevo allenamenti durissimi, con passi di montagna, da solo, i miei amici dicevano “Ferdi, tu sei matto”, sette-otto ore senza scendere di bici, perché se scendi, non risali più. Mi piaceva soffrire, soprattutto se poi vincevo. Se invece perdevo, rimaneva soltanto la sofferenza. Ecco perché, per fare il corridore, bisogna essere matti.»
Qui sotto il mondiale varesino di Kübler e poi il Tour de France
Gino Cervi
RIP