14 feb 2017 – Oggi è l’anniversario della morte di Marco Pantani.
Su Pantani ho tre cose da dire.
La prima è che da quel giorno, quel 14 febbraio del 2004, per molti di noi San Valentino ha smesso di essere una ricorrenza felice ed è diventato uno dei giorni più tristi dell’anno. In giorno carico di amarezza per quello che era, per quello che avrebbe potuto essere e non è mai stato.
La seconda è che non si capisce cosa era Pantani se non vi è capitato, pedalando sulle strade delle vostre zone, di incrociare un gruppo di ragazzini che vi incita. Prima di lui i ragazzini vi gridavano: “Vai Coppi!” o al massimo “Vai Bugno!”; dopo di lui solo: “Vai Pantani!”. Nessuno mi ha mai urlato “Vai Armstrong!” o “Vai Contador!”, per dire.
La terza era lo spettacolo della sua pedalata in salita. I ciclisti in salita sono di due tipi. Ci sono quelli che vanno su di forza, con pedalate lente e potenti, e le spalle che oscillano; letteralmente spingono la bici su per la salita. E ci sono quelli che invece vanno in agilità, frullano sui pedali, fanno muovere la bici e la cavalcano facendosi portare su.
E poi c’era Pantani. La pedalata di Pantani, era una cosa diversa, è una pedalata che ho visto solo a lui. Sembrava che fosse lui ad andare avanti, per una forza propria, e che trascinasse la bici con sé; era come se salisse con le ali e stesse attaccato al manubrio per fare in modo che la bici lo seguisse.
Meglio di così non so dirlo.
Claudio Borgognoni