4 lug 2018 – I veri appassionati di ciclismo hanno un modo peculiare per misurare il trascorrere del tempo, il passare degli anni, dei mesi e dei giorni. Una parte considerevole della loro vita, dal punto di vista emotivo, ruota costantemente intorno a due fasi: l’attesa di una corsa importante (a tappe o in linea) e il momento in cui quella competizione si svolge, offrendo spettacolo ed emozioni. Poi, quando tutto finisce, comincia subito l’attesa di una nuova corsa. Quella successiva.
Anche le stagioni hanno solo una vaga corrispondenza con quelle astronomiche o meteorologiche (inverno, primavera, ecc.), da sempre note agli altri esseri umani. L’appassionato di ciclismo ha la stagione delle “prime gare nei Paesi caldi”, quella delle “Classiche”, quella dei “grandi Giri”, poi il Mondiale e le ultime corse dell’anno.
È difficile farsi capire dal resto dell’umanità, quella che non ama il ciclismo, quando si vive così. Lo so – e lo posso dire – perché io vivo così.
Esistono solo tre settimane all’anno in cui il calendario dell’appassionato di ciclismo sembra allinearsi e tornare in sintonia con quello tradizionalmente vissuto dal resto del mondo: i giorni di luglio in cui si disputa il Tour de France.
Tutti conoscono il Tour, in qualunque luogo, regione, nazione o continente. Qualunque persona, dal bambino all’anziano, anche se non apprezza il ciclismo, ha almeno una vaga percezione della sua rilevanza. Perché, nel nuovo millennio che stiamo vivendo, il Tour è diventato il più grande evento sportivo globale di frequenza annuale. Quello con la maggior visibilità mediatica. È un dato di fatto che ha ragioni storiche ed economiche precise, sia antiche, sia recenti. Non è il caso di spiegarle qui, adesso, per non annoiare. Ma è così, anche se a qualcuno può non far piacere: soprattutto agli appassionati italiani di ciclismo, che vorrebbero una maggior valorizzazione del Giro d’Italia.
Solo i mega-eventi sportivi quadriennali, come le Olimpiadi e la Coppa del Mondo di calcio, hanno una risonanza internazionale superiore a quella del Tour de France.
Nessuno ti guarda storto al lavoro, in famiglia o al bar se dici che stai seguendo le Olimpiadi in TV o attraverso internet. Se ne parli. Se ne scrivi sui social-media. È ritenuto normale: socialmente “accettabile”. Lo stesso avviene, più o meno, col Tour de France. Il Tour è quindi un’oasi di pace interiore per ogni vero appassionato di ciclismo, indipendentemente dal suo esito agonistico: non ti devi “giustificare” con nessuno quando lo segui, perché è riconosciuto da tutti come una sorta di “istituzione”.
In Francia, ovviamente, lo è ancora di più. I Presidenti della Repubblica, tradizionalmente, si recano a fare visita al Tour durante il suo svolgimento. L’uomo più importante e potente della nazione, indipendentemente dalla sua appartenenza politica o dalle sue preferenze personali, sa di dovere rendere omaggio a uno dei pilastri culturali (quindi sociali) dell’ultimo secolo di storia del suo Paese. I Presidenti passano, cambiano, ma la Repubblica e il Tour restano. Non è solo una questione di consenso popolare: è un fatto di appartenenza.
Per capire questa dinamica, per capire il Tour de France, basta rileggere alcune righe scritte nel 1961 da Roland Barthes, uno dei più grandi intellettuali del Novecento:
«Dicono che i francesi non si intendono di geografia: la loro geografia non è quella dei libri ma quella del Tour. Ogni anno, grazie ad esso, i francesi scoprono la lunghezza delle loro coste e l’altezza delle loro montagne. Ogni anno rivivono l’unità materiale del loro paese, ne censiscono le frontiere e i prodotti».
A questo serve il ciclismo: scoprire o riscoprire un territorio e i suoi paesaggi. Serve a tutti, non solo ai francesi e non solo agli appassionati di bicicletta. Il ciclismo è l’unico sport capace di trasformare la comunicazione di massa, incentrata su di una competizione sportiva, in una forma diffusa di conoscenza e apprendimento. Il racconto della corsa e delle sue dinamiche agonistiche è parte costitutiva della funzione “pedagogica” positiva, di alfabetizzazione territoriale, che il ciclismo può svolgere per il grande pubblico. È il motivo per cui, qualche anno fa, ho iniziato a studiarlo nella mia vita professionale, come ricercatore e come urbanista. Ho condotto ricerche, ho scritto e pubblicato libri e saggi accademici sul tema.
Ciò che non avevo mai fatto, fino a oggi, era seguire una grande corsa come semplice “opinionista” dello sport: scriverne per il solo piacere di condividere idee ed emozioni con gli altri. Ma ho sempre avuto la curiosità di provarci.
Per questo motivo, ho accolto con piacere la proposta di Cyclinside di pubblicare una mia piccola rubrica quotidiana sul Tour de France 2018, che sta per iniziare. Si intitolerà “Sketches by Boz”: un omaggio al grande Charles Dickens, uno dei miei autori preferiti. Ma questo l’avete già capito, se siete arrivati fin qui.
Non sarà facile trovare il tempo per scrivere, tutti i giorni, coniugando gli impegni di lavoro con la visione delle tappe. Sarà una vera sfida.
Ma so di poterlo fare senza sentirmi in colpa, per i motivi che ho già spiegato: Le Tour c’est Le Tour, il più grande “evento” territoriale del mondo.
Merita di essere raccontato giorno per giorno, almeno una volta nella vita.
Spero solo di riuscirci e di non annoiarvi.
Paolo Bozzuto
(docente di urbanistica al Politecnico di Milano, autore del libro “Pro-cycling Territory“)